Recensione di Petter Nesser, Islamist Terrorism in Europe. A History,
Hurst Publishers, London 2015
Vigilia
di Natale 1994: il volo Air France 8969 viene dirottato dal GIA, Gruppo
Islamico Armato algerino. Nel corso dell’operazione tre passeggeri perdono la
vita, mentre i quattro dirottatori sono uccisi a Marsiglia dalla Gendarmerie
nationale che fa irruzione sull’aereo. Fu quello il giorno in cui l’Europa
conobbe per la prima volta sul proprio suolo il terrorismo di matrice islamista,
che nei vent’anni seguenti non l’avrebbe più abbandonata. Su questo arco di
tempo si concentra Petter Nesser, del Centro di ricerca della difesa norvegese,
e autore delle oltre trecento pagine che ripercorrono la storia del terrorismo
islamico in Europa. Analizzando ogni singolo attacco terroristico di matrice islamista
avvenuto nel continente, Nesser indaga come si sono evolute le reti jihadiste
in Europa dagli anni ’90 a oggi, i target e il modus operandi degli
attentatori, cercando di trovare una sintesi tra la teoria del “leader-led
jihad” di Bruce Hoffman e quella del “leader-less jihad” di Marc Sageman.
Secondo la prima, gli attacchi sarebbero sempre architettati da un leader
(al-Qaida negli anni 2000); per la seconda il jihad è opera dei singoli che, di
loro iniziativa, intercettano altri potenziali jihadisti e creano una rete. Questi
ultimi si convertirebbero al jihadismo creando movimenti autonomi non tanto per
motivazioni ideologiche, quanto per ragioni psico-sociologiche (mancata
integrazione nella società, frustrazione, ricerca di un’identità forte,
ribellione ai genitori…). Secondo Nesser, se considerate singolarmente, le due
teorie sono riduttive e impediscono di comprendere fino in fondo il fenomeno. Per
esempio la teoria di Hoffman è utile per spiegare gli attentati di dimensioni
maggiori e coordinati da un leader (come la strage nella metropolitana di
Londra nel 2005), ma non riesce a rendere conto degli attentati più piccoli,
come quello al regista olandese Theo van Gogh, ucciso nel 2004 ad Amsterdam per
le immagini del suo film Submission. Combinando
i due approcci, e concentrandosi con grande rigore analitico sulle traiettorie
individuali, Nesser individua quattro diversi tipi di terrorista jihadista: l’“imprenditore”,
il “protetto”, il “vagabondo” e il “disadattato”. Allo stesso tempo però presta
anche molta attenzione all’intreccio di eventi locali, regionali e
internazionali che fanno da retroterra agli attentati.
Se
la Francia è stata la prima vittima del terrorismo islamista, spiega Nesser, la
Gran Bretagna è il Paese in cui negli anni ’90 è nata la prima comunità
jihadista, formando quello che sarebbe diventato noto come Londonistan. In
generale l’Europa, con le libertà previste dai suoi regimi democratici, era il
luogo ideale per creare una sotto-cultura nelle moschee radicalizzate,
raccogliere finanziamenti e reclutare nuovi membri sfruttando anche il
potenziale dei social media. Così da un lato essa era percepita come una
presenza minacciosa per le sue politiche estere, ma dall’altro fungeva da rifugio
per i suoi cittadini naturalizzati, concedendo loro ampio margine di manovra. Fino
alla metà degli anni 2000, fu il secondo aspetto a prevalere, garantendo
all’Europa un “patto di sicurezza”. Poi l’impegno dei Paesi europei in
Afghanistan e Iraq, la vicenda delle vignette satiriche e le operazioni
israeliane a Gaza, secondo l’autore, cambiarono la situazione, cancellando il
“patto”. L’ascesa dello Stato Islamico ha fatto il resto, trasformando l’Europa
in un bersaglio privilegiato dei jihadisti e creando un clima di insicurezza
che il ritorno dei foreign fighters dalla Siria contribuirà
probabilmente a peggiorare.
Da quando il jihadismo è tornato a colpire nel
nostro Continente, non sono mancate le pubblicazioni sul tema. Pochi libri però
possono vantare il rigore, la profondità e l’equilibrio del lavoro di Nesser,
uno strumento imprescindibile per chi si occupa di terrorismo islamista.
[Recensione pubblicata su Oasis n. 24 (novembre 2016)]
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