martedì 23 febbraio 2016

È guerra tra jihadisti: al-Qaeda vs Isis

Un lungo comunicato del leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, esorta i qaedisti che stanno combattendo il loro jihad in Iraq e in Siria a diffidare della miscredente Arabia Saudita, colpevole di aver instaurato relazioni diplomatiche con l’Occidente a scapito del Regno, aver tradito Osama bin Laden consegnandolo agli americani, dato rifugio ai premier arabi destituiti a seguito delle “primavere arabe”, ed essersi schierata contro il terrorismo jihadista.
Ma l’Arabia Saudita non è l’unico bersaglio del leader di al-Qaeda; la lettera diventa infatti un’occasione per colpire i “fanatici takfiristi” dello Stato Islamico, che strumentalizzano il takfîr per mettere in cattiva luce i “rivali” qaedisti.     


Qui sotto la traduzione parziale del documento.

Clicca qui per consultare il testo originale in arabo.

Il Levante è affidato ai vostri colli

[...] Fratelli miei, musulmani e combattenti, tutti hanno seguito la recente conferenza di Riyadh e la successiva dichiarazione dell’Arabia Saudita sulla formazione di un’alleanza per combattere ciò che essa, nell’interesse dell’America, definisce terrorismo. Questi sono solo due anelli nella catena dei tentativi dell’Arabia Saudita e dei suoi simili malvagi di deviare dalla retta via la traiettoria del jihad in generale, e nel Levante in particolare, affondarlo nella palude dello Stato nazionale e trasformarlo in un fallimento, esattamente come hanno fatto con quella che hanno definito “primavera araba”. 

Perciò supplico i miei fratelli che combattono nel Levante di stare in guardia da questo governo malvagio e non dimenticare la sua storia oscura a servizio dei nemici dell’Islam.
Fu ‘Abdul Aziz al-Saud a stipulare, nel 1915, il trattato [di Darin, ndt] con la Gran Bretagna, che nella prima Guerra mondiale scese in campo contro lo Stato ottomano. La Gran Bretagna avrebbe protetto Ibn Saud, che in cambio si impegnava a non stipulare accordi con nessun altro governo straniero. Il trattato mirava a colpire lo Stato ottomano.

Quando nel 1936 scoppiò la grande rivolta in Palestina, ‘Abd al-‘Azîz al-Sa‘ûd inviò i suoi due figli a guidare gli insorti e, insieme a re Ghazi e il principe ‘Abdallah, rilasciò la seguente celebre dichiarazione: “Abbiamo già sofferto molto per la situazione in Palestina e, in accordo con i nostri fratelli, i re degli arabi e il principe ‘Abdallah, vi esortiamo a restare in pace e risparmiare le vite, fidandovi delle buone intenzioni del governo britannico, nostro amico, del suo desiderio dichiarato di realizzare la giustizia, e del nostro aiuto”. Così i Palestinesi si sottomisero e la rivoluzione si spense.

Il Presidente Roosevelt e il Re Abdul 'Aziz al-Saud
Con la fine della seconda Guerra mondiale, nel 1945 ‘Abd al-‘Azîz al-Sa‘ûd incontrò Roosevelt per spostare la fedeltà dalla Gran Bretagna all’America, alla quale concesse la ricchezza della penisola araba e il diritto di sfruttarne le terre e i cieli. In cambio l’America si faceva garante della permanenza al potere dei figli di ‘Abd al-‘Aziz nella penisola araba.

I tradimenti si susseguirono. Quando il jihad afghano era prossimo alla vittoria contro i russi, l’Arabia Saudita intervenne insieme al Pakistan per formare il governo dei mujahidin, presieduto da Mujaddidi oggi agente dell’America a Kabul [m. 9 febbraio 2016, ndt].

Poi il governo saudita orchestrò l’uccisione dello shaykh Osama in Pakistan, il quale però riuscì a fuggire in Sudan. A quel punto l’Arabia Saudita fece pressioni al Sudan perché allontanasse lo shaykh Osama e i suoi fratelli. Allora Osama andò ospite da Yunis Khâlis a Jalalabad, e l’Arabia Saudita chiese a quest’ultimo di allontanarlo. Le stesse richieste – di allontanare Osama e i suoi fratelli o consegnarli all’America – l’Arabia le presentò anche all’emirato islamico finché l’ordine dell’audace Turki al-Faysal giunse a Qandahar al mullah Muhammad ‘Umar, a cui fu chiesto di consegnare Osama bin Laden – Dio ha avuto misericordia di lui – e i suoi fratelli. Il mullah allora lo allontanò rivolgendogli parole dolorose.

Quando in Sudan scoppiò la guerra civile, l’Arabia Saudita fornì armi a John Garang e lo stesso fece con i comunisti nello Yemen meridionale.

Re Fahd e successivamente ‘Abdullah si fecero promotori delle loro imprese malvage e riconobbero a Israele il diritto di occupare le terre prese prima del ’67.

Dall’Arabia Saudita partivano gli aerei crociati che colpivano l’Iraq e l’Afghanistan, e che oggi colpiscono il Levante e l’Iraq.

Quando scoppiarono le rivoluzioni dei popoli arabi, l’Arabia Saudita accolse Zayn al-Abidin bin ‘Ali, incaricò ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, vice del [presidente] destituito, di prendere il posto di quest’ultimo, e sostenne al-Sisi nel rovesciamento dei Fratelli. Oggi l’Arabia Saudita continua a esercitare questo ruolo malvagio contro il jihad e i mujahidin.

Oggi l’Arabia Saudita vuole a suscitare la sedizione (fitna) fra i mujahidin del Levante e giocare lo stesso ruolo malvagio in Afghanistan, nella speranza che le file jihadiste si disintegrino e figure come quelle di Mujaddidi, ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, al-Sisi e Beji Caid Essebsi assumano il potere nel Levante, agendo in difesa degli interessi dell’America e della sicurezza di Israele.

O voi mujahidin del Levante, le esperienze e la storia vi insegnano che l’Arabia Saudita non punterà ad altro che a distruggere il Levante, salvaguardare la sicurezza di Israele e abortire qualsiasi tentativo di costituire un potere islamico nel Levante. State in guardia dall’Arabia Saudita, dai suoi complotti e dalle sue conferenze. […]

L’Arabia Saudita non vi darà libertà, né dignità né onore perché non può darvi ciò che non ha. Oggi l’Arabia Saudita e i suoi simili sono strumenti dell’Occidente crociato per l’istituzione nel nostro mondo arabo-islamico dello Stato laico nazionale (dawla ‘almâniyya wataniyya), assoggettato alla legge internazionale. Perciò ciascun mujahid deve stare in guardia da espressioni quali “Stato civile e plurale” con le quali i laici intendono dei significati ben precisi, che portano al rifiuto della religione, al dominio delle passioni umane e alla sottomissione al piacere e al profitto, riferimento del mondo contemporaneo.

Fratelli miei che combattete nel Levante e in ogni luogo, il nobile Corano ha definito l’obbiettivo del jihad in questi termini: “Combatteteli finché non ci sarà più discordia e il culto sia interamente reso a Dio” (8,39), mentre il Profeta, la preghiera e la pace siano su di lui, disse: “Chi combatte ed esclama a gran voce la parola Allah, costui è sulla via di Dio”. Il nostro jihad e il nostro sforzo devono essere volti a costituire lo Stato musulmano in cui viga la sharia, che non riconosca i confini nazionali né le distinzioni etniche, e che creda nell’unità delle terre islamiche e nella fratellanza dei credenti.

Militanti di Jabhat al-Nusra, movimento affiliato ad al-Qaida, in Siria
Perciò coloro che emigrano nel Levante o verso qualsiasi altro fronte jihadista non possono essere definiti stranieri poiché essi sono fratelli nella fede e nella dottrina e sacrificano la loro vita per far trionfare la religione di Dio. Perciò volerli espellere dal Levante o da qualsiasi altra terra islamica contraddice evidentemente le prescrizioni dell’Islam. Il Profeta, la preghiera e la pace siano su di lui, definì il Levante “il cuore della terra dei credenti”.

Fratello mio, che combatti nel Levante e nelle altre terre islamiche, diffida, diffida e diffida dal sacrificare te stesso e il tuo denaro, diffida dall’emigrare, dall’abbandonare la tua patria e la tua famiglia, e dal trascorrere la tua vita in prigione; i laici coglieranno i frutti di questi grandi sacrifici come conseguenza delle contrattazioni dei politici e della loro rinuncia alle costanti della dottrina e della sharia. La stessa tragedia che viviamo da oltre un secolo si sta ripetendo, ed è come se non avessimo dedotto nulla da quei drammi e dalla misera fine di quella che è stata definita la primavera araba.

O voi leoni dell’Islam nel Levante, di tutte le fazioni di combattenti e di ogni terra islamica, il Levante è affidato al vostro collo, svuotatelo degli alawiti, dei laici, dei rafiditi safavidi, difendetelo dagli attacchi dei crociati e non lasciatelo ai fanatici takifiristi. Questi ultimi hanno accusato di miscredenza la direzione di al-Qaeda, affermato, mentendo, che nessuno tra coloro che professa l’unicità di Dio (muwahhidûn) ha affrontato gli houthi, lanciato ingiurie contro i soldati dell’emirato islamico definendoli agenti dell’Inter-Services Intelligence, e accusato di miscredenza buona parte dei mujahidin nel Levante.

Essi sono coloro che rifiutano l’autorità della sharia quando la maggior parte dei mujahidin del Levante la accoglie e, oltre a rifiutarla, hanno preso ad attaccare la dottrina dei mujahidin che hanno dato le loro vite per difenderne la sovranità.

Questi hanno proclamato un califfato per mezzo di una dichiarazione di fedeltà (bay‘a) di alcuni sconosciuti, avvenuta in un luogo e in un momento sconosciuti, a un uomo che non la merita e che, di fatto, ha ricevuto una dichiarazione di fedeltà per un emirato islamico. La notizia è stata diffusa da chi non godeva della credibilità necessaria per diffonderla, tanto sono numerose le menzogne e le diffamazioni di cui è artefice. […]

Talebani in Afghanistan
Essi affermano di seguire le orme dei loro pii antenati malgrado il conflitto con lo shaykh Osama bin Laden, Dio ha avuto misericordia di Lui – il quale dichiarava che la bay‘a al principe dei credenti, il mullah Muhammad Omar, è la bay‘a suprema e invitava i musulmani a dichiarargli fedeltà –, e malgrado il conflitto con lo shaykh Abu Hamza al-Muhajir, Dio ha avuto misericordia di lui, il quale riteneva che chi si chiama fuori dal patto di fedeltà dopo che il principe dei credenti, il mullah Muhammad Omar, l’ha riconosciuto, compie un crimine ben più grave della fornicazione e del consumo di vino. […]

domenica 14 febbraio 2016

Sui media arabi continua la guerra tra filo-sauditi e filo-iraniani

[Voci dal mondo arabo]

Chi mette Isis e Iran sullo stesso piano e chi invece imputa la crisi attuale all’Arabia Saudita e alla diffusione del wahabismo. Tre articoli da tre diversi giornali arabi mostrano quanto è accesso lo 
scontro che sta dividendo (e distruggendo) il Medio Oriente.


La lettura del testo e la riforma religiosa

Di Ridwan al-Sayyid, al-Ittihâd, 17 gennaio 2016

Sebbene non abbiano le azioni di Daesh e degli iraniani non  abbiano alcuna relazione con la religione, nemmeno per chi le commette in nome di quest’ultima,  esse ci pongono ogni giorno di fronte a problematicità con cui dobbiamo fare i conti.
Quando, cinque mesi fa, gli ufficiali iraniani hanno iniziato a cadere ad Aleppo e nel nord della Siria, gli sciiti, e tra loro Khamenei, nei loro discorsi commemorativi affermavano come questi fossero morti solo per proteggere i luoghi di pellegrinaggio degli Al al-Bayt e combattere quanti lanciavano anatemi. Quando poi il fronte di Riyadh si è mosso contro Teheran, Ja‘afari, capo della Guardia della rivoluzione, ha dichiarato che la Guardia aveva addestrato duecentomila combattenti dispiegandoli in cinque Paesi arabi per diffondere i valori della rivoluzione islamica e difendere gli interessi della Repubblica!
Dopo tutto ciò c’è ancora bisogno di spiegare i due pretesti dell’ingerenza iraniana, vale a dire difendere i luoghi di pellegrinaggio e combattere chi accusa gli sciiti di miscredenza? Noi siamo tenuti a considerare queste cose seriamente non perché vi siano dei dubbi sulle due questioni, ma perché dobbiamo parlare ai cittadini arabi – musulmani, cristiani e non solo. Molti di loro credono a ciò che dicono gli iraniani, non perché abbiano una buona opinione dell’Iran, ma per la cattiva opinione che al-Qaida e Daesh hanno diffuso degli arabi e dell’Islam. Daesh ha attaccato alcuni luoghi di pellegrinaggio, la maggior parte dei quali sono dedicati a personalità sufi e storiche sunnite. I santuari e le tombe che offrono loro sepoltura, che siano dedicati agli Al al-bayt o ad altri, sono edifici dei sunniti, non degli sciiti – com’è il caso del mausoleo di Sayyida Zeynab nelle vicinanze di Damasco – e perciò difendere questo patrimonio religioso non spetta né agli iraniani né a Hezbollah. Non si è mai sentito che un Paese occupi un altro Paese perché una tomba
che gli appartiene è oggetto di attacchi. Così come non si è mai sentito che i musulmani sunniti nel mondo abbiano il diritto di andare a proteggere i musulmani in Siria e in Iraq le cui moschee sono distrutte a migliaia dall’artiglieria, dai bombardamenti aerei e dalle esplosioni […]. 

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Daesh e il daeshismo del regime saudita

Di Sâmir al-Marâhî, al-Akhbâr, 9 febbraio 2016

Chi legge in maniera scientifica e oggettiva la situazione in cui versano le nostre società e molti Paesi arabi e islamici per la diffusione del takfîr (anatema) criminale e la violenza daeshita [Daesh è l’acronimo arabo per Isis. Daeshita si riferisce all’ideologia di Daesh, ndt], percepirà come il fattore intellettuale e ideologico sia la causa principale di ciò che affligge le nostre società e i nostri Paesi. Questo fattore può essere sintetizzato nel salafismo wahabita e nella sua cultura. È evidente che il salafismo wahabita non si sarebbe diffuso in molti Paesi arabi e occidentali se il regime saudita non lo avesse fatto proprio e non gli avesse garantito il sostegno materiale, mediatico e politico. Il salafismo è riuscito ad attrarre molti seguaci fino a diventare un movimento mondiale il cui riferimento è il wahabismo saudita. La natura delle dottrine adottate dal salafismo wahabita non è un segreto. Esso include la peggior specie di sciovinismo religioso, l’accusa di miscredenza e l’annientamento dell’altro; il salafismo invita chiaramente a praticare la violenza, è incline alla persecuzione e alla repressione, lede i diritti dell’uomo, della donna, delle minoranze religiose e confessionali, e a distrugge la libertà in tutte le sue forme ed espressioni. È altrettanto noto che il regime saudita sostiene il salafismo wahabita e contribuisce a diffondere la da‘wa [predicazione] e  divulgare le sue dottrine, incitando al terrorismo, invitando a lanciare accuse di miscredenza, incitando a praticare la violenza, diffondendo la cultura dell’odio, fomentando la divisione e il razzismo, e incoraggiando l’uccisione e il crimine […]


La Russia offre sostegno sia a Isis sia a Bashar al-Asad

Di Ahmad Rahma, Al-Jazeera, 12 febbraio 2016




Gli arabi devono ricorrere al soft power nella lotta contro l’Iran

Di Karîm ‘Abdiyân Sa‘îd, Al-Sharq al-Awsat, 11 febbraio 2016

Non è più un segreto che il regime teocratico oggi in carica in Iran sia un’estensione del movimento anti-arabo della shu‘ûbiyya [movimento che già durante l’espansione islamica contestava la preminenza degli arabi], e che si ammanti dello sciismo per servire i propri interessi e conseguire i propri obiettivi di espansione nella regione araba. Al fine di raggiungere questi obiettivi il regime ricorre a tutti i mezzi disponibili – umani, materiali e mediatici in particolare, per uscire vittorioso dalla lotta manifesta con gli arabi.
Rispetto all’ascesa della minaccia iraniana, noi riteniamo che i Paesi arabi in generale e il Consiglio di Cooperazione del Golfo in particolare debbano bloccare questa espansione e affrontarla direttamente, senza rimandare, e lavorare alla creazione di un equilibrio strategico con questo Stato apostata, che si intromette negli affari dei suoi vicini e destabilizza la loro sicurezza e stabilità.
Vale la pena ricordare che, da ben tre decenni, gli attivisti arabi ahwazi [da Ahwaz, capitale della provincia iraniana del Khuzestan, ndt] mettono in guardia dal pericolo di incursioni del regime iraniano nella regione, in virtù della conoscenza che ne hanno avuto e di cui sono stati vittime.
All’epoca però il conflitto presentava una natura diversa rispetto a quella di oggi, perciò i loro avvertimenti non furono presi sul serio. Oggi però la lotta tra gli arabi e l’Iran è diventata una lotta esistenziale, che esige un approccio globale che preveda l’uso della forza per scongiurare questo pericolo imminente. Ma di quale forza
stiamo parlando? Io vedo due tipi di forze, l’“hard power” […] e il “soft power”. Io ritengo che il secondo sia più efficace […]. 

martedì 9 febbraio 2016

Siria: nella morsa dell’Iran e dello Stato Islamico

[Voci dal mondo arabo]

Secondo l’intellettuale libanese Ridwan al-Sayyid l’ingerenza iraniana in Siria è inopportuna e inammissibile. I pretesti  avanzati dall’Iran – la difesa dei luoghi di culto sciiti presenti a Damasco e la lotta contro chi accusa di miscredenza gli sciiti – a giustificazione del suo intervento non sono credibili perché, spiega al-Sayyid, nessuno Stato può arrogarsi il diritto di occupare un altro Stato col pretesto di difendere un luogo di culto che gli appartiene.
Nel frattempo lo Stato Islamico continua a mietere migliaia di vittime, non solo tra i cristiani e gli sciiti ma anche tra i sunniti, mosso nelle sue azioni dalla dottrina della fedeltà e della rottura (al-walâ’ wal-barâ’).  

Qui sotto la traduzione dell’articolo dell’autore.


Sebbene non abbiano alcuna relazione con la religione, anche agli occhi di chi le commette ponendole sotto la sua egida, le azioni di Daesh e degli iraniani ci pongono ogni giorno di fronte ad ambiguità con cui dobbiamo confrontarci.
Quando, cinque mesi fa, gli ufficiali iraniani hanno iniziato a cadere ad Aleppo e nel nord della Siria, gli sciiti, e tra loro Khamenei, nei loro discorsi commemorativi affermavano come questi fossero morti solo per proteggere i luoghi di pellegrinaggio degli Al al-Bayt e combattere quanti lanciavano anatemi. Quando poi il fronte di Riyadh si è mosso contro Teheran, Ja‘afari, capo della Guardia della rivoluzione, dichiarò che la Guardia aveva addestrato duecentomila combattenti dispiegandoli in cinque Paesi arabi per diffondere i valori della rivoluzione islamica e difendere gli interessi della Repubblica!

Nasrallah, l'ayatollah Khamenei e la moschea di Sayyida Zeynab a Damasco
Dopo tutto ciò c’è bisogno di spiegare i due pretesti dell’ingerenza iraniana, vale a dire difendere i luoghi di pellegrinaggio e combattere chi accusa gli sciiti di miscredenza? Noi siamo tenuti a considerare queste faccende seriamente non perché vi siano dei dubbi sulle due questioni, ma perché dobbiamo parlare ai cittadini arabi – musulmani, cristiani e non solo. Molti di loro credono a ciò che dicono gli iraniani, non perché abbiano una buona opinione dell’Iran, ma per la cattiva opinione che al-Qaida e Daesh hanno diffuso degli arabi e dell’Islam. Daesh ha rivolto la sua attenzione ad alcuni luoghi di pellegrinaggio, la maggior parte dei quali sono dedicati a personalità sufi e storiche sunnite. Quei luoghi di culto e quelle tombe i cui mausolei sono oggetto di attenzione, che siano dedicati agli Al al-bayt o ad altri, sono edifici dei sunniti, non degli sciiti – com’è il caso del mausoleo di Sayyida Zeynab nelle vicinanze di Damasco – e perciò difendere questo patrimonio religioso non spetta né agli iraniani né a Hezbollah. Non si è mai sentito che un Paese occupi un altro Paese perché una tomba che gli appartiene è oggetto di attenzioni. Così come non si è mai sentito che i musulmani sunniti nel mondo abbiano il diritto di andare a proteggere i musulmani in Siria e in Iraq le cui moschee sono distrutte a migliaia dall’artiglieria, dai bombardamenti aerei e dalle esplosioni. L’ultimo caso risale a pochi giorni fa quando a Diyala, in Iraq, una decina di moschee sono state distrutte da Daesh con il pretesto della vendetta in un attentato suicida nel mercato della città.

Ma torniamo a Daesh. Daesh ha una cattiva opinione degli sciiti e dei cristiani. Un’opinione ancor peggiore ce l’ha dei musulmani sunniti. Quasi non uccidono che loro. Daesh, così come al-Qaida, è uno scisma nella nostra religione o dalla nostra religione. È evidente che lo scisma vuole eliminare l’origine e sostituirsi ad essa. A quale pretesto religioso si appella Daesh, che uccide non centinaia ma migliaia di persone? Il pretesto è, come d’abitudine, la dottrina della fedeltà e della rottura (al-walâ’ wal-barâ’).

Alcune settimane fa ho assistito a una discussione tra due studiosi sulla questione. Entrambi erano contro Daesh, ma uno dei due riteneva necessario applicare la dottrina della fedeltà e della rottura poiché essa è contemplata in settanta versetti coranici. Questa dottrina è strettamente collegata alla controversia sull’abrogazione (naskh) tra i versetti della conciliazione e i versetti della spada. Personalmente ritengo, come centinaia di studiosi vissuti negli otto secoli che mi hanno preceduto, che le due questioni siano state risolte da questo versetto: “Dio non vi proibisce di essere buoni ed equi con chi non vi ha combattuto e non vi ha scacciato dalle vostre case, Dio ama gli equanimi” (60,8).   

Il nostro rapporto con il resto dell’umanità è fondato sulla benevolenza e la rettitudine, e noi abbiamo il diritto di difenderci solo se ci combattono a causa della nostra fede o della nostra terra. Analogamente ha posto fine a questa dottrina l’esperienza storica della umma confluita nelle interpretazioni relative alla guerra, alla pace e alla tregua che gli Stati che si sono succeduti hanno applicato. Nella dottrina della fedeltà e della rottura c’è un ampliamento notevole della nozione di fede. Chi declama che non vi è altro dio se non Iddio e che Muhammad è il suo Profeta entra nel Giardino [paradiso, ndt]. Non è miscredente chi dissente da Abu Bakr al-Baghdadi o da altri, né si può accusare qualcuno di miscredenza per questo.

Se accade che questi giovani creano una scissione e diffondono ovunque la morte e la distruzione mentre i fondamentalisti iraniani le diffondono nel mondo arabo, per quanto la loro propaganda sia falsa e assurda, non conviene prenderla alla leggera né tacere, perché il popolo sunnita e sciita non siano tratti in inganno. Non c’è potenza né forza se non in Dio.