lunedì 30 novembre 2015

Arabia Saudita: "un Daesh riuscito"?

La sintesi di una conversazione con Stephane Lacroix, professore di Scienze politiche ed esperto di salafismo, su ciò che accomuna e ciò che distingue il salafismo jihadista di Daesh dal wahhabismo saudita. Il video-intervista è stato realizzato da Mediapart pochi giorni dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. 



Secondo il giornalista algerino Kamel Daoud, Daesh ha una madre, l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, e un padre, l’Arabia Saudita.
Ma Stephane Lacroix non è d’accordo. Sebbene Daesh e l’Arabia Saudita condividano molti aspetti ideologici, teologici e giuridici, e l’approccio letteralista alle Scritture, per diverse ragioni Daesh non può essere considerato un prodotto saudita.

In primo luogo, il salafismo saudita ha dato vita a un sistema politico costruito su un equilibrio tra religioso e politico. Questo sistema bicefalo fa sì che “l’estremismo” religioso sia in un certo modo limitato dal patto che lo lega alla parte politica. In Arabia Saudita sono presenti due sfere, i predicatori e i principi. I principi attuano politiche pragmatiche, fanno la real-politik lasciandosi guidare dalla ragione di Stato. Questo i sauditi l’hanno dimostrato in più di un’occasione nelle loro decisioni di politica estera. Si sono alleati con gli Stati Uniti e in alcuni momenti della storia addirittura con i comunisti. Negli anni ’60 durante la guerra civile in Yemen hanno sostenuto gli zaiditi, sciiti, perché erano ostili all’influenza dei nasseristi, nonostante l’ideologia wahhabita sia anti-sciita. Nel ’94 sempre in Yemen hanno sostenuto i comunisti.

L’Arabia Saudita, contrariamente allo Stato Islamico, si definisce Stato, non califfato, e i principi non si dicono califfi.

Il salafismo saudita è una visione societaria che si ferma là dove inizia la parte politica. I salafiti agiscono sulla società dal basso. Essi diffondono il loro messaggio ultraconservatore attraverso la predicazione, vogliono costituire quella che secondo loro è la società islamica ideale ma non hanno pretese politiche. Il jihadismo invece è l’esatto contrario, cerca di prendere il potere con la violenza.

Nel Novecento, in Arabia Saudita, il politico ha saputo addomesticare il religioso. Ciò è evidente, per esempio, nella visione che i wahhabiti hanno maturato degli sciiti. Se nell’Ottocento li definivano apostati, nel Novecento hanno iniziato a considerarli dei cattivi musulmani, ma pur sempre musulmani.

I sauditi vedono nella Stato Islamico una minaccia ed è esagerato affermare che l’abbiano sostenuto finanziariamente. Lo Stato Islamico funziona come un qualunque Stato: ha introdotto le imposte e controlla i pozzi petroliferi, perciò per esistere non ha bisogno di finanziamenti esterni.

Il salafismo non spiega le origini del jihadismo, cioè dell’azione violenta ispirata da un programma totalitario volto a costituire uno Stato islamico duro e puro. All’origine del jihadismo c’è Sayyid Qutb, che non ha subito l’influenza del salafismo saudita. Il messaggio jihadista ha iniziato a essere ridefinito e riscritto a partire da nozioni salafite solamente negli anni ’90. Il jihadismo non ha bisogno del salafismo per esistere.

Il salafismo e il jihadismo pongono entrambi dei problemi, ma non gli stessi. Per affrontarli occorre saperli riconoscere. Fare confusione tra i due e offrire soluzioni sbagliate può potenzialmente condurre alla radicalizzazione.

In Arabia Saudita in futuro potrebbe emergere uno Stato diverso da quello che conosciamo. Diversi movimenti infatti contestano l’ordine religioso. L’opposizione di destra lo ritiene troppo morbido e auspica un modello duro e puro (che si avvicina a quello di Daesh), mentre l’opposizione di sinistra vorrebbe reinventare il salafismo. Si tratta, in questo secondo caso, di uomini di religione che hanno studiato nelle università saudite, padroneggiano alla perfezione le fonti e le nozioni salafite e, a partire da queste, cercano di ridefinire il ruolo del religioso e del politico. Essi hanno costituito un movimento che chiede l’istituzione di una monarchia costituzionale con un parlamento eletto, e la giustificano citando passaggi tratti dai testi di Ibn Taymiyya, considerato l’ispiratore del salafismo moderno.

giovedì 26 novembre 2015

Che cosa dicono i giornali arabi del terrorismo islamico

Un quotidiano iracheno riflette sulle responsabilità delle società islamiche nel rafforzamento degli estremismi, le dichiarazioni dello sheykh di al-Azhar suscitano reazioni contrastanti

Al-Madâ, quotidiano iracheno di politica, Questo è il nostro terrorismo, noi ne siamo responsabili!, di ‘Adnân Husayn

Lezione in una scuola coranica
“Non possiamo sottrarci alla nostra responsabilità di fronte al terrorismo, a nulla ci servirà cercare delle scuse. Dobbiamo innanzitutto riconoscere la nostra responsabilità e domandare perdono a noi stessi e agli altri per poi correggere la nostra condotta. Non è possibile correggere la nostra condotta senza ripensare completamente e modificare radicalmente i nostri programmi d’insegnamento dalla scuola elementare all'università. Non ci sarà alcun perdono se non rivediamo il modo in cui la religione è presentata nei programmi d’insegnamento nelle università, nelle moschee e nelle husseiniyya [luoghi di culto usati per le cerimonie sciite, ndr], sui canali televisivi e alle stazioni radio. La religione come viene presentata non è una religione di tolleranza, pace, armonia, accordo e reciproca compassione. La religione come viene presentata nei nostri programmi, nelle nostre università, nelle nostre moschee e nelle nostre husseiniyya, alla radio e alla televisione, è una religione barbara che esorta al decapitare, spargere sangue, rubare, usurpare, schiavizzare e violentare. L'altra religione, che alcuni di noi dicono essere la vera religione, non è presente nelle nostre vite. Nella migliore delle ipotesi, la sua voce è tanto fievole da non essere udita da nessuno, soprattutto dalla nuova generazione, esclusa ed emarginata, la cui umanità è compromessa dalla povertà, dalla privazione, dall’assoggettamento, dall’insegnamento e dalle fatwa deliranti”.

Al-Akhbâr, quotidiano libanese, Lo Shaykh di al-Azhar attacca ancora gli sciiti…e i cristiani?!, di Mustafa Shihata

Moschea al-Azhar, Cairo
“Sembrerebbe che lo shaykh di al-Azhar Ahmad al-Tayyib sia indeciso tra uno Stato che auspica il rinnovamento del discorso religioso e un’istituzione salafita che fa l’esatto opposto, visto che gli shaykh e i professori della sua università attaccano tutto ciò che diverge dalla loro dottrina. [..]Quest’ambivalenza è emersa durante la conferenza dal titolo ‘Uno sguardo sull’invito a rinnovare il discorso religioso e smantellare l’ideologia estremista’, che si è tenuta nella città di Luxor, a sud del Cairo, nei giorni scorsi. […].Nel discorso di apertura al-Tayyib ha detto che i musulmani, ‘ispirandosi al nobile Corano, hanno prodotto una grande civiltà di cui hanno beneficiato i popoli orientali e occidentali, a differenza della civiltà occidentale, che è stata colta dalla fragilità e dalle divisioni quando nel Medio Evo ha issato la bandiera della religione, mentre quando si è ribellata alla religione e le ha voltato le spalle si è sviluppata ed è fiorita.’ […] Ha inoltre aggiunto che ‘è storicamente dimostrato che i musulmani hanno prodotto delle eresie (ibda‘û) quando hanno voltato le spalle al Corano e alla Sunna, e il loro regresso è imputabile all’allontanamento dalle fonti di forza, insite nella religione islamica”.

Al-Masrî al-Yaum, quotidiano egiziano liberale, Lo shaykh di al-Azhar: inviare le delegazioni nel mondo per far conoscere il vero Islam, di Redazione

Ahmad al-Tayyib, shaykh di al-Azhar
Lo Shaykh di al-Azhar Ahmad Al-Tayyib ha dichiarato che invierà “alcune delegazioni di al-Azhar nel mondo per insegnare il vero Islam e neutralizzare il pensiero deviante […]”. Ha inoltre aggiunto che “il terrorismo è una malattia del pensiero e dello spirito, costantemente alla ricerca di giustificazioni nei passaggi oscuri dei testi religiosi. Ha specificato inoltre che le cause del terrorismo non sono imputabili esclusivamente alla deviazione nelle religioni. Spesso infatti il terrorismo esce dal mantello delle dottrine sociali, economiche e perfino politiche. Sono migliaia se non addirittura milioni le vittime dei conflitti e delle guerre fra quelle dottrine e filosofie materialiste, che nulla hanno a che vedere con la religione”.

Al-Hayât, quotidiano panarabo con sede a Londra, Reazioni arabe al terrorismo, di Muhammad Haddad


Sala da spettacolo Bataclan, Parigi
“C'è qualcosa di innaturale nel rapporto che alcuni arabi hanno con il terrorismo e nelle loro reazioni agli attacchi terroristici. Non intendo qui le posizioni ufficiali e quelle dei giornali noti, ma le posizioni spontanee espresse sui social network, che sono anche le posizioni più credibili ed esprimono l’opinione delle società. […] I cittadini francesi che sono stati uccisi o feriti il 13 novembre avevano forse qualche responsabile in ciò che sta accadendo in Siria o avevano forse qualche rapporto con Bashar al-Assad o con Isis? L’esercito francese è lì per sostenere una delle due parti che stanno uccidendo il popolo siriano oppure è lì per cercare di scongiurare il peggio? […] Se l’Occidente non interviene è accusato di essere insensibile alla tragedia dei popoli arabi, e se interviene si dice che il terrorismo è la giusta pena per l’intromissione da parte occidentale nelle questioni arabe. Non siamo forse noi arabi a non sapere che cosa vogliamo?”

lunedì 16 novembre 2015

Breve rassegna della stampa araba dopo gli attentati a Parigi

*Rassegna stampa pubblicata originariamente su Fondazione Oasis

Il re giordano: “I musulmani devono guidare la battaglia contro il terrorismo”. Per al-Sharq al-Awsat non ci sarà pace in Medio Oriente finché ci saranno Assad e Isis
Al-Sharq al-Awsat, quotidiano panarabo edito a Londra. “Terrorismo Parigi: sono in due a rallegrarsene”, di Târiq al-Hamîd, giornalista saudita, ex capo-redattore del giornale.

“Sono in due a rallegrarsi degli attentati a Parigi. Lo Stato islamico, che ha rivendicato l’operazione terroristica […] e Bashar al-Assad, secondo il quale l’operazione terroristica di Parigi è il risultato delle politiche estere francesi sbagliate. Al-Assad è stato l’unico a giustificare l’attacco terroristico piuttosto che condannarlo. Oggi al-Assad ripete lo stesso atteggiamento del regime di Saddam Hussein dopo i fatti di settembre 2001 in America, quando non riusciva a nascondere la sua gioia […]. Questo ci insegna che, fintanto che esisteranno l’Isis e al-Assad, non ci sarà pace nella regione, né negli Stati del Mediterraneo né nella comunità internazionale”.

Anche alcuni vignettisti arabi hanno espresso tramite dei disegni, poi diffusi su Twitter, le loro opinioni sui fatti di venerdì 13:

Il giordano 
Osama Hajjaj ha dipinto una giovane donna in lacrime che simboleggia la nazione francese.



La vignetta proposta da Arab21 intende invece sottolineare quelle che secondo il blog sono le colpe della politica dell'Occidente (il sacco portato dalla figura che rappresenta la morte, sui cui si legge la scritta “terrorismo”) nel fomentare la crescita del fanatismo:




Arab NewsGiordania: i musulmani devono guidare la battaglia contro il terrorismo
Il re di Giordania Abdullah II ha dichiarato che il terrorismo è “la minaccia più grande per la nostra regione e che i musulmani devono guidare la battaglia contro di esso. […] Combattere l’estremismo è una responsabilità regionale e internazionale, ma è soprattutto la nostra battaglia, di noi musulmani, contro coloro che cercano di dirottare le nostre società e generazioni con l’ideologia takfirista intollerante”.

Al-Quds: Gli attacchi di Parigi e le revisioni necessarie
“Questi attacchi contro persone innocenti fanno sì che da un lato si moltiplichino gli inviti fare la guerra ai gruppi terroristici, ma dall’altra rafforzano l’estrema destra nei Paesi occidentali e i meccanismi della tirannia nei Paesi arabi. […] Se da un lato l’entità dell'attacco di venerdì sera indica una crescita delle capacità organizzative, militari e di intelligence degli attentatori, dall’altro è indice del fallimento senza precedenti della sicurezza francese”.
"L’assunzione di responsabilità da parte delle autorità politiche non è che un aspetto «tecnico» della questione la quale richiede, piuttosto, una revisione politica globale, da parte della Francia in primis, e poi del mondo intero".

Come evidenziato dalla vignetta di Arab21, non sono mancate le accuse dirette all'Occidente, vittima, secondo il brasiliano di origine araba
Carlos Latuff, della sua stessa politica estera:





sabato 14 novembre 2015

Attentato Parigi: testo di rivendicazione di Isis


Di seguito il testo della rivendicazione postata dallo Stato Islamico a poche ore dall'attentato.  


Disse Iddio l’Altissimo: “Essi pensavano che le loro fortezze li avrebbero protetti da Dio, ma Dio li ha afferrati da dove meno si aspettavano, ha gettato nei loro cuori lo spavento ed essi hanno demolito le loro case con le proprie mani e grazie alle mani dei credenti. Riflettere, voi che avete vista acuta” (59,2).

In un attacco benedetto del quale Dio ha facilitato le cause, un gruppo di credenti tra i soldati del Califfato – che Dio gli conceda potenza e vittoria – ha preso di mira la capitale degli abomini e della perversione, che porta la bandiera della croce in Europa, Parigi.

Un gruppo, che ha lasciato la vita terrena, è avanzato verso il nemico cercando la morte sulla via di Dio, portando soccorso alla sua religione, al suo Profeta e ai suoi alleati, e nell’intento di umiliare i nemici. Essi sono stati sinceri con Dio; noi li consideriamo tali. Dio ha conquistato attraverso le loro mani e ha gettato la paura nel cuore dei crociati nella loro stessa terra.

Otto fratelli che indossavano cinture di esplosivo e fucili d’assalto hanno preso come bersaglio
dei luoghi minuziosamente scelti in anticipo nel cuore della capitale francese: lo stadio di Francia durante la partita dei due Paesi crociati – la Francia e la Germania – alla quale assisteva l’imbecille di Francia Francois Hollande, il Bataclan, dove erano riuniti centinaia di idolatri durante una festa di perversità, e altri obbiettivi nel decimo, undicesimo e diciottesimo arrondissement. Parigi ha tremato sotto i loro piedi e le strade sono diventate strette per loro. Il bilancio degli attacchi è di minimo 200 crociati uccisi e ancora più di feriti – la lode e il merito appartengono a Dio.  

Dio ha facilitato i nostri fratelli e ha dato loro ciò che speravano (il martirio). Dopo aver terminato le munizioni, essi hanno detonato le cinture esplosive tra i miscredenti. Che Dio li accetti tra i martiri e ci consenta di raggiungerli. La Francia e quanti seguono la sua strada devono sapere che rimangono gli obbiettivi principali dello Stato Islamico e che continueranno a sentire l’odore della morte per essersi messi alla guida della crociata, aver osato insultare il nostro Profeta, essersi vantati di combattere l’Islam in Francia e colpire i musulmani nella terra del Califfato con i loro aerei, che a nulla sono serviti nelle strade maleodoranti di Parigi. Questo attacco non è che l’inizio della tempesta e un avvertimento per coloro che vogliono meditare e trarne delle lezioni.

Dio è il più grande. Ma la potenza appartiene a Dio e al Suo messaggero e ai credenti, e gli ipocriti non sanno nulla (63,8).




giovedì 12 novembre 2015

Strage Beirut: lo Stato Islamico rivendica l'attentato

Quello che segue è il testo della rivendicazione dell'attentato avvenuto poche ore fa in Libano, nella zona di Burj al-Barȃjna a sud di Beirut, roccaforte di Hezbollah. 

Comunicato di rivendicazione dell'attentato


Nel corso di un’operazione di sicurezza, di cui Iddio l’Altissimo si rallegra, i soldati del Califfato hanno collocato e fatto esplodere una motocicletta tra i rafiditi (gli sciiti) infedeli (al-rȃfidha al-mushrikîn) in shȃri‘ al-Husayniyya a Burj al-Barȃjna, nella periferia sud di Beirut – roccaforte di Hezbollah. Quando gli apostati si sono radunati nel luogo dell’esplosione, uno dei cavalieri della testimonianza (fursȃn al-shahȃda) – Dio lo ha esaudito – ha detonato la cintura esplosiva tra la folla, causando quaranta morti e duecento feriti, Dio sia lodato. Che sappiano gli apostati che noi non ci fermeremo finché non avremo vendicato il profeta, la preghiera di Dio e la pace siano su di lui, e il compiacimento di Dio sia sui suoi compagni. Sia lode a Dio, il Signore dei mondi.


La minaccia jihadista nel Sinai

A dieci giorni dalla caduta del volo 7K9268 in Sinai, Londra e Washington propendono per l’ipotesi dell’attentato. E mentre l’inchiesta procede, la Provincia di Aleppo, affiliata allo Stato Islamico, ha postato online un nuovo video di sette minuti dal titolo “Appagamento delle anime per l’uccisione dei russi” in cui si congratula con i fratelli della Wilâyat Sinai, la Provincia del Sinai, per l’abbattimento dell’aereo russo in cui hanno perso la vita “220 crociati russi”. Una voce fuori campo celebra l’attentato e mette in guardia la Russia, minacciandola di mietere altre vittime se il governo continuerà a intromettersi nella questione siriana. Questo è il terzo video di rivendicazione rilasciato in pochi giorni. Il primo era un breve audio-video realizzato a poche ore dall’attentato mentre il secondo, dal titolo “Siamo stati noi a farlo cadere. Schiattate di rabbia”,  è stato postato il 4 novembre.



 [Versione breve del video “Appagamento delle anime per l’uccisione dei russi”]

Tuttavia non tutti sembrano propendere per l’ipotesi dell’attentato. Tra gli esperti vi è anche chi la ritiene illogica. Secondo William McCants, ricercatore del Brookings Institution, effettuare una spedizione punitiva contro la Russia abbattendo un suo aereo sarebbe controproducente per lo Stato Islamico. Infatti in Siria la Russia non sta combattendo le milizie del Califfo, ma i gruppi jihadisti che vogliono rovesciare quel che resta del governo di Bashar al-Asad e che interferiscono con lo Stato Islamico. Nel mirino russo ci sono gli uomini di Jabhat al-Nusra, Ahrar al-Sham, Jabhat Ansar al-Din e dell’Esercito Siriano Libero. In un certo senso perciò la presenza russa in Siria sarebbe vantaggiosa per lo Stato Islamico perché combatte i suoi nemici.

L’evoluzione del jihadismo in Sinai

Il Sinai è da anni una spina nel fianco del governo egiziano. Per la sua posizione geografica, la penisola è ideologicamente più vicina a Gaza che al Cairo, e anche le vie del commercio hanno sempre portato le tribù che popolano il Sinai verso Nord piuttosto che verso Sud. Inoltre la morfologia della penisola non è certo stata d’aiuto alle forze di sicurezza egiziane, che difficilmente sono riuscite a controllare la zona desertica settentrionale e la zona montagnosa meridionale. Senza dimenticare che il Sinai è una zona cuscinetto tra Egitto e Israele e, come tale, dev’essere demilitarizzata. Se si considera inoltre la bassa densità demografica della regione, si capisce come la penisola sia stata da sempre un ottimo rifugio per i militanti che, dal 2000 hanno avuto mano libera soprattutto nella parte settentrionale del Sinai.

È in questa zona che negli anni ‘90 si è formato il gruppo terrorista al-Tawhîd wa al-Jihâd, a cui sono stati attribuiti gli attentati di Taba nell’ottobre 2004, di Sharm el-Sheikh nel luglio 2005 e di Dahab nell’aprile 2006.

Il Sinai settentrionale è stato inoltre la destinazione preferita dei salafiti di Jund Ansar Allah, gruppo attivo nella striscia di Gaza, che ad agosto 2009 fu messo in fuga da Hamas per aver proclamato la nascita di un Emirato Islamico in Palestina. Questo atto di sfida è costato la vita ad ‘Abdel Latif Mussa, leader spirituale dell’organizzazione, la cui morte segnò l’inizio della fine del gruppo, decimato dalle ritorsioni di Hamas. I superstiti ripararono in Sinai sfruttando i tunnel nella montagna che congiungono Gaza alla penisola egiziana.

La grande occasione dei jihadisti del Sinai arrivò nel febbraio 2011 con le dimissioni del presidente Hosni Mubarak. Analogamente a quanto stava avvenendo in Tunisia, anche nell’Egitto post-rivoluzione furono rilasciati molti detenuti con un passato jihadista i quali, una volta usciti dal carcere, non esitarono a riprendere i vecchi contatti e costituire nuovi gruppi. Così fece, per esempio, Muhammad al-Zawahiri, fratello del leader di al-Qaida, Ayman al-Zawahiri.

Nel biennio 2011-2013 le attività jihadiste fervevano e il Sinai divenne una sorta di “fabbrica di jihadisti” che ha dato i natali a decine di gruppi salafiti. Uno di questi, Ansar Beit al-Maqdis (Abm; poi noto come Provincia del Sinai), riuscì presto a consolidarsi e a emergere nel panorama salafita egiziano.

Come si è formato Ansar Beit al-Maqdis

Nel vuoto di potere lasciato dalla caduta del presidente Mubarak, e a seguito della crisi securitaria innescata dalle tribù del Sinai che hanno cacciato le forze di sicurezza governative dalla penisola, buona parte dei militanti della regione si sono uniti al gruppo al-Tawhîd wa al-Jihâd. Da questa unione è nato Ansar Beit al-Maqdis. Come suggerisce il nome stesso dell’organizzazione, “i paladini di Gerusalemme”, inizialmente l’obbiettivo di Abm era liberare Gerusalemme dal governo israeliano. Perciò le prime azioni terroristiche miravano a colpire degli obbiettivi locali. La prima di queste operazioni risale a luglio 2012, quando i militanti attaccarono un gasdotto che esportava gas verso la Giordania e Israele. Poco tempo dopo, l’organizzazione lanciò dei missili dal Sinai sulla città di Eilat (agosto 2012) e attaccò una pattuglia israeliana di confine (settembre 2012) in risposta alla produzione cinematografica “Innocence of Muslims”, il lungometraggio “blasfemo” prodotto dal cristiano copto Nakoula Basseley Nakoula, ma inizialmente ritenuto una produzione israeliana.

La destituzione del presidente islamista Mohammad Mursi nel 2013 ha segnato un cambio di rotta nella strategia di Ansar Beit al-Maqdis. Collaborando con i gruppi disseminati nei vari teatri di crisi egiziani, l’organizzazione è infatti riuscita a estendere la sua rete su tutto il territorio e ad affermarsi come movimento jihadista nazionale.

Rivendicazione di Ansar Beit al-Maqdis dell'attentato alla sede della sicurezza nel Sud Sinai 

Da questo momento, Ansar Beit al-Maqdis sposta la sua attenzione dal fronte nord al fronte sud, prendendo di mira i militari di al-Sisi e alcune personalità politiche egiziane, punendole per il massacro di piazza al-Râbi‘a avvenuto nell’agosto 2013 in cui persero la vita oltre 600 persone. A oggi le vittime delle forze di sicurezza sono oltre 700, la maggior parte delle quali sono state uccise del Sinai settentrionale, grazie anche alla collaborazione di agenti di polizia disertori che hanno abbracciato la causa jihadista. In questo contesto rientrano, per esempio, l’omicidio del Tenente Colonnello Muhammad Mabrûk, ucciso al Cairo nel novembre 2013, e il tentato omicidio del ministro degli Interni Muhammad Ibrâhîm.

Il 10 novembre 2014 il leader di Ansar Beit al-Maqdis, Abû ‘Usâma al-Masrî, dichiarava fedeltà allo Stato Islamico e l’organizzazione assumeva una nuova denominazione, diventando Provincia del Sinai. Secondo alcuni analisti questa scelta non sarebbe stata condivisa all’unanimità e avrebbe favorito molte divisioni. Alcune cellule della valle del Nilo avrebbero infatti preferito rimanere fedeli ad al-Qaida. L’alleanza con al-Baghdadi si sarebbe perciò rivelata un'arma a doppio taglio perché ostacolerebbe le aspirazioni nazionali e transnazionali della Wilâyat Sinai che, avendo perso il sostegno di molti gruppi in terra ferma,  avrebbe dovuto ripiegare nel Sinai.

Uomini della Wilayat Sinai
La delicata situazione del Sinai negli ultimi quattro anni mette a nudo le difficoltà del governo egiziano ad arginare il terrorismo. Pur avendo lanciato diverse campagne anti-terrorismo (l’ultima delle quali, la Martyr’s Right, lanciata a ottobre) e nonostante l’adozione di molte misure di sicurezza, l’Egitto ha dimostrato di non riuscire a mettere in sicurezza la penisola né contenere la minaccia jihadista.