mercoledì 28 ottobre 2015

Tunisia: parabola del jihadismo dal 2011 a oggi

Dopo la caduta del presidente Ben ‘Ali, nel gennaio 2011, la Tunisia si è ben presto ritrovata a fare i conti con la minaccia jihadista. Fino a quel momento il Paese era stato pressoché immune dall’islamismo radicale, fatta salva qualche rara eccezione negli anni 2006-2007, e comunque non tale da compromettere la sicurezza interna e la stabilità del governo. A pochi mesi dalla caduta del regime i salafiti tunisini hanno dato prova di sé, approfittando del clima libertario post-rivoluzione per “denunciare e correggere” le pratiche di una società che essi consideravano troppo secolarizzata e distante dalla sharî‘a. Così l’8 ottobre 2011 duecento estremisti assaltavano l’università di Susa a causa del divieto di indossare il velo integrale nei locali dell’università, e il 9 ottobre trecento salafiti attaccavano la tv privata Nessma per aver mandato in onda il film di animazione di Marjane Satrapi, Persepolis.

Questi episodi non erano che il preludio dell’escalation di violenza che di lì a pochi mesi avrebbe insanguinato il Paese dei Gelsomini. Nel periodo post-rivoluzione si sono infatti costituite delle nuove formazioni jihadiste d’ispirazione salafita che miravano a neutralizzare il nemico interno, vale a dire le personalità della vita pubblica tunisina le cui posizioni erano ritenute troppo aperte.

Il 10 dicembre 2012 veniva ucciso Anis Jelassi, uomo della Guardia nazionale tunisina, un anno dopo, il 6 febbraio 2013 perdeva la vita Chokri Belaid e pochi mesi dopo, il 25 luglio, Muhammad Brahmi, entrambi politici all’opposizione che da molti mesi denunciavano la violenza politica del governo islamista di al-Nahda. Questi due omicidi rappresentarono il punto di non ritorno, scatenarono le proteste in tutto il Paese e spinsero il Primo ministro Hamadi Jebali alle dimissioni. Nessuno rivendicò pubblicamente gli attentati, ma il governo li attribuì ad Ansar al-Sharia in Tunisia (Ast) di cui si parlerà tra poco.

Nel 2015 gli obbiettivi jihadisti e le dinamiche degli attentati variano. Da questo momento il salafismo jihadista tunisino rivolge l’attenzione al nemico esterno attaccando gli stranieri. Si spiegano in quest’ottica l’attentato al museo del Bardo lo scorso 18 marzo in cui perdevano la vita 22 persone, e pochi mesi dopo, il 26 giugno, il massacro di Port el Kantaoui che causava la morte di 38 turisti. Colpendo l’Occidente e i suoi “crociati” – per riprendere qui l’espressione con cui lo Stato Islamico ha definito le vittime nella rivendicazione dell’attentato del Bardo  – i jihadisti ferivano a morte anche l’economia del Paese alimentata in gran parte dal turismo, arrecando un danno economico di 500 milioni di dollari.

La parabola degli attacchi terroristici indica da un lato una presenza jihadista in Tunisia sempre più capillare, dall’altro la diversificazione dei movimenti jihadisti e dei loro obbiettivi, e la rapida ascesa dello Stato Islamico a discapito di al-Qaida. Questi dati trovano conferma nell’attribuzione della responsabilità degli attentati (fino al 2014 ascritti ad Ast, poi a Isis), e nella scelta dei foreign fighters tunisini partiti per la Siria di arruolarsi tra le fila dello Stato Islamico e non con le milizie di Jabhat al-Nusra, legata ad al-Qaida.

I fattori che hanno contribuito all’ascesa rapida del jihadismo tunisino – segnalano in un report dettagliato Bridget Moreng e Daveed Gartenstein-Ross – sono almeno tre. L’amnistia decisa dal governo di transizione che ha rimesso in circolazione prigioni politici dell’ex regime di Ben ‘Ali, il clima permissivo del primo periodo post-rivoluzionario, quando ai salafiti era concesso fare propaganda liberamente, e i gravi problemi socio-economici che hanno contribuito a radicalizzare i giovani disoccupati ai margini della società. A questi fattori va poi aggiunta l’instabilità dei Paesi limitrofi, Algeria e Libia, che negli ultimi anni hanno formato masse di jihadisti esportandoli nella vicina Tunisia.

Dalla congiuntura di questi fattori nell’aprile 2011 nasceva Ast per volere di ‘Iyâd al-Tûnisî, un salafita jihadista che aveva combattuto a fianco di Bin Laden nella battaglia di Tora Bora nel 2001 in Afghanistan. L’organizzazione, sostenuta da shaykh Khattâb Idrîs, meglio noto come lo “shaykh salafita” tunisino, ha esercitato fin da subito un forte potere attrattivo e già nel 2012 contava all’incirca 50.000 membri. Secondo un rapporto della Stanford University, inizialmente Ast aveva legami con il partito politico al-Nahda, spezzati ufficialmente nell’agosto 2013 quando Ast ha assunto una deriva violenta e al-Nahda, ormai al governo, l’ha dichiarata un’organizzazione terrorista.



‘Iyâd al-Tûnisî, fondatore di Ast

Nel 2012 si costituiva la formazione Katîbat ‘Uqba ibn Nâfi (Kuin) che deve il nome all’omonimo condottiero arabo vissuto nel VII secolo, fondatore della città-accampamento di Qayrawan e della grande moschea che ancora oggi porta il suo nome. Si dice che Kuin sia stata voluta da al-Qaida nel Magreb (Aqim) con l’obbiettivo di costituire dei campi di addestramento nella regione tunisina di Kasserine in cui fornire una formazione iniziale alle reclute prima di inviarle in altri campi di addestramento in Algeria e Libia. Questa tesi sarebbe confermata dalle tattiche di guerriglia adottate dai militanti di questo gruppo, che sono le stesse a cui ricorre Aqim negli attacchi contro l’esercito algerino nella Cabilia.

Tutt’ora non è ben chiaro quali rapporti intercorrano tra Ast, Kuin e Aqim. Sembrerebbe però che Ast e Kuin siano due facce della medesima organizzazione. Ast sarebbe l’ala politica del gruppo mentre Kuin l’ala militare.

Entrambi i gruppi sono caduti in disgrazia quando il governo tunisino ha stretto il giro di vite sui movimenti militanti, e comunque sono stati messi in ombra dall’ascesa dello Stato Islamico che, il 17 dicembre 2014 diffondeva un video-messaggio al popolo tunisino, invitandolo a dichiarare fedeltà al “Califfo” Abu Bakr al-Baghdadi.

lunedì 19 ottobre 2015

Al-Qaida contro lo Stato Islamico

Il 23 gennaio 2014 il leader di al-Qaida, Ayman al-Zawâhirî, si proclamava innocente ed estraneo ai crimini commessi dal Califfo e scomunicava lo Stato Islamico. Quello che segue è il testo integrale della dichiarazione.


Sia lode a Dio, e la preghiera e la pace siano sull’inviato di Dio, sulla sua famiglia, sui suoi compagni e sui suoi seguaci.

In primo luogo, al-Qaida dichiara di non aver alcun legame con l’organizzazione dello Stato Islamico in Iraq e in Siria, di non essere stata messa al corrente della sua formazione, di non essere stata consultata e di non compiacersene affatto. Anzi, essa le ha ordinato di fermarsi, perciò lo Stato Islamico non è un ramo di al-Qaida, tra le due organizzazioni non vi è alcun legame e al-Qaida non è responsabile della sua condotta.
È la direzione generale dell’organizzazione che riconosce e rende note le proprie diramazioni, assicurando l’amicizia, l’amore e il sostegno a ogni combattente, e il senso di fratellanza tra musulmani e mujahidin.

In secondo luogo, al-Qaida desidera ribadire alcune nozioni importanti dell’azione jihadista.

1. Sono importanti la consultazione (shûrâ) e il lavoro di squadra. Le decisioni si assumono dopo che i combattenti si sono consultati e la loro leadership le ha convalidate.

2. I problemi che si generano tra i mujahidin vanno risolti internamente, mai dandone comunicazione esterna.

3. Noi desideriamo essere parte della umma, non vogliamo violarne i diritti, non vogliamo dominarla, né privarla del diritto di scegliere chi la deve governare tra coloro che soddisfano le condizioni previste dalla sharî‘a. Noi non ci affrettiamo a proclamare emirati e stati senza prima aver consultato gli ‘ulamâ dei mujahidin, la direzione, e i combattenti e i musulmani tutti. Ma una volta proclamati, li imponiamo a tutti e consideriamo fuori chi vi si oppone.

4. Noi desideriamo unire la umma sulle questioni principali. Questo è il metodo promosso da shaykh Usama bin Laden, Dio abbia misericordia di lui, attraverso la predicazione e l’azione jihadista, fino a quando Dio lo prese a se come martire.
Perciò l’organizzazione ha pubblicato il documento dal titolo “La vittoria dell’Islam”, in cui conferma questo metodo e illustra le questioni sulle quali occorre unire la umma.

5. Desiderando purificare l’azione jihadista dalle irregolarità e dai comportamenti dannosi, l’organizzazione [al-Qaida] ha pubblicato un documento dal titolo “Indicazioni generali per l’azione jihadista”.

6. Occorre astenersi da qualsiasi comportamento che generi ingiustizia verso un mujahid, un musulmano o un non-musulmano.

Noi proclamiamo la nostra innocenza rispetto alla sedizione (fitna) che si sta diffondendo nel Levante tra le fazioni dei mujahidin, e al sangue illecito che è stato versato da una parte e dall’altra. Noi esortiamo tutti i mujahidin ad avere timore di Dio, a prendere coscienza della grande responsabilità che incombe su di loro, e dell’enorme catastrofe che si è abbattuta sul Jihad nel Levante e sul futuro della umma musulmana.
Noi invitiamo chi ha ragione, fede e desiderio di unirsi al jihad, ad adoperarsi per fermare la sedizione mettendo immediatamente fine alla guerra, e poi a risolvere i conflitti rivolgendosi alle autorità giudiziarie.

In terzo luogo, noi confermiamo che la porta della consultazione tra noi e loro è sempre aperta, e che il musulmano combattente, per quanto grandi siano gli errori che ha commesso, ha il diritto alla fratellanza, alla vittoria, all’amicizia e al rispetto. Noi non dichiariamo innocenti le nostre anime. «Non dichiaro innocente la mia anima – l’anima spinge al male – a meno che il mio Signore abbia misericordia, il mio Signore è indulgente e pieno di compassione» (12,53); «…io voglio rendervi migliori per quanto posso. Però il mio successo spetta soltanto a Dio, in Lui ho confidato, a Lui mi rivolgo pentito» (11,88).

Sia lodato Dio, Signore dei mondi, e la Sua preghiera sia su Muhammad, sulla sua famiglia e sui suoi compagni.

giovedì 15 ottobre 2015

Al-Qaida scomunica lo Stato Islamico

Fin dalla sua proclamazione, gli analisti occidentali lo hanno definito un ramo di al-Qaida. Eppure l’efferatezza e la ferocia di cui ha dato prova nell’ultimo anno lo Stato Islamico sono eccessive anche per al-Qaida, che lo sconfessa e si proclama innocente ed estranea al suo progetto e ai suoi metodi.


«Al-Qaida dichiara di non aver alcun legame con il gruppo dello Stato Islamico in Iraq e in Siria, di non essere stata messa al corrente della sua formazione, di non essere stata consultata e di non rallegrarsene affatto. Al-Qaida ha ordinato al gruppo di sospendere qualsiasi attività, perciò quest’ultimo non può considerarsi un suo ramo; tra le due organizzazioni non sussiste alcun legame e al-Qaida non è responsabile dei comportamenti dello Stato Islamico»[1].

Con questa dichiarazione Ayman al-Ẓawâhirî, subentrato alla leadership di al-Qaida nel 2011 in seguito alla morte di Osama bin Laden, smentisce l’esistenza di qualunque legame tra l’organizzazione di cui è a capo e lo Stato Islamico di al-Baghdadi. Quest’ultimo avrebbe intrapreso il suo progetto autonomamente, senza consultarsi con la direzione generale di al-Qaida, e il 29 giugno 2014 avrebbe proclamato la nascita del Califfato all’insaputa di al-Ẓawâhirî. Così facendo al-Baghdadi avrebbe violato l’accordo stipulato tra al-Qaida e i suoi seguaci in Iraq (affiliati all’organizzazione Al-Qaida in Iraq), che prevedeva che nel Levante non sarebbero sorte entità statuali qaidiste.



Ayman al-Ẓawâhirî, leader di al-Qaida centrale


Divergenze di metodo

Oltre alla mancata consultazione con la “casa madre”, anche il metodo adottato da al-Baghdadi avrebbe convinto il leader di al-Qaida a dissociarsi dal Califfo. Al-Qaida rimane fedele al metodo introdotto da Osama bin Laden e poi adottato da shaykh Mustafâ Abû al-Yazîd[2], shaykh ‘Atiya[3] e shaykh Abû Yahyâ[4] – spiega al-Ẓawâhirî[5]. Tale metodo, illustrato in Tawjîhât ‘âmma li-l-‘amal al-jihâdî (“Indicazioni generali per l’operazione jihadista”), definisce gli obbiettivi dei mujahidin e le modalità operative per raggiungerli. I nemici numero uno di al-Qaida – si legge nel documento – sono l’America e i suoi “alleati crociati ed ebrei”. Il sangue degli innocenti è proibito, perciò non è lecito commettere attentati nei suq, nei quartieri residenziali, nelle moschee e tanto meno tra i mujahidin. Al-Baghdadi contravverrebbe a questo metodo perché esercita la violenza indistintamente su quanti, musulmani e non-musulmani, si oppongono al suo progetto.
Su questo punto al-Ẓawâhirî è tornato anche recentemente, in seguito all’attacco suicida che nel febbraio scorso ha provocato la morte di Abû Khâlid al-Sûrî, esponente di Ahrâr al-Shâm – estensione del gruppo terrorista al-Nusra a sua volta legato ad al-Qaida. Il combattente sarebbe stato ucciso dai nuovi “kharijiti”, espressione con cui il leader di Ahrâr al-Shâm, Hisân ‘Abûd, ha definito gli attentatori mandati da al-Baghdadi. Commentando il fatto al-Ẓawâhirî ha messo in guardia i musulmani esortandoli a non stare dalla parte del Califfo, a «non offrire il loro sostegno a chi fa saltare in aria le sedi dei mujahidin, e a chi manda loro autobombe o uomini bombe»[6].

Due visioni contrastanti di Califfato

Un altro motivo di dissenso tra le due organizzazioni è la natura che deve assumere il Califfato.
La questione del metodo sembra determinante anche per quanto concerne il raggiungimento dell’obbiettivo finale delle due organizzazioni. Sebbene tale obbiettivo sia simile – unificare la umma e ripristinare il califfato “ben guidato” – a detta di al-Ẓawâhirî non si può dire che esse percorrano le medesime vie per realizzarlo. Al-Qaida vorrebbe ripristinare il califfato dei quattro califfi “ben guidati”, Abû Bakr, ‘Umar, ‘Uthmân e ‘Alî, sulla base di una tradizione del Profeta: «Dovete rimanere tenacemente attaccati alla mia sunna e alla sunna dei califfi ben guidati». Tutti i governanti successivi avrebbero infatti dato prova di mediocrità, e finito per dar vita a forme di califfato corrotte, come fecero i sultani mamelucchi – ricorda ancora al-Ẓawâhirî – che si contendevano il potere a filo di spada. Il califfato delle origini sarebbe invece fondato sulla consultazione (shûrâ) e sul consenso dei musulmani. 
Il Califfato in Iraq e in Siria sarebbe perciò un tradimento della storia e al-Baghdadi un dittatore e un impostore. Il fatto di essersi autoproclamato califfo e di abusare della violenza generando il terrore è controproducente –  spiega al-Ẓawâhirî – perché «offre al sistema siriano e all’America l’occasione che tanto aspettavano, e rende ostili i musulmani autoctoni, che si domandano perché al-Qaida abbia attirato su di loro una tale catastrofe».

La dichiarazione di al-Ẓawâhirî si conclude con un’ulteriore professione di innocenza e l’esortazione a unire gli sforzi per mettere fine alla discordia (fitna) che sta devastando il Levante: «Noi ci professiamo innocenti ed estranei alla discordia che si sta diffondendo nel Levante tra le fazioni dei combattenti, e al sangue illecito che è stato versato, da una parte e dall’altra. Noi esortiamo tutti i mujahidin ad avere timore di Dio, a prendere coscienza della grande responsabilità di cui sono investiti, e dell’enorme catastrofe che si è abbattuta sul Jihad nel Levante e sul futuro della umma musulmana. Noi invitiamo chi ha ragione, fede e desiderio di unirsi al jihad ad adoperarsi per fermare la discordia mettendo immediatamente fine alla battaglia, e risolvere i conflitti rivolgendosi alle autorità giudiziarie»[7].

Insomma, lo Stato Islamico sarebbe troppo fondamentalista anche per i più fondamentalisti (al-Qaida in primis, ma non solo) e i suoi metodi troppo violenti e coercitivi. Al-Ẓawâhirî ritiene che i militanti di al-Baghdadi stiano mietendo vittime innocenti, ciò che sarebbe contrario all’“etica” del jihad – dimenticando forse che anche i presunti “crociati” che l’11 settembre 2001 si trovavano nelle Torri gemelle erano innocenti. 
Surreali sono anche le dichiarazioni del leader di al-Qaida sull’età d’oro del califfato (632-661) e il suo desiderio di istituirne uno democratico, che lasci la libertà ai musulmani di scegliere il loro califfo! La storia islamica ci ricorda infatti che il periodo 632-661 non fu certo un trentennio di pace e concordia, ma fu segnato dalle campagne di conquista e dall’assassinio dei primi tre califfi.
Se al-Ẓawâhirî fosse riuscito a ricreare il “califfato originario”, chissà se davvero avrebbe adottato metodi diversi da quelli di al-Baghdadi di fronte alla ritrosia di quei musulmani che oggi si sentono siriani e iracheni, non certo sudditi di un califfato.






[2] Di origini egiziane, fu il responsabile delle casse finanziarie di al-Qaida. Fu ucciso il 21 maggio 2010 durante un raid aereo nella regione del Waziristan, a nord-ovest del Pakistan. http://www.longwarjournal.org/archives/2010/05/top_al_qaeda_leader_1.php. 
[3] Di origini libiche, shaykh ‘Atiya ‘Abd al-Rahmân era il numero due di al-Qaida. Fu ucciso il 22 agosto 2011 da un drone della CIA.  http://www.theguardian.com/world/2011/aug/27/al-qaida-two-killed-pakistan.
[4] Di origini libiche, Abû Yahyâ fu detenuto nel centro di detenzione Bagram da cui riuscì a fuggire a luglio 2005. Fu ucciso il 4 giugno 2012 nella regione del Waziristan, Pakistan, da un drone della CIA. La sua morte fu successivamente confermata da al-Ẓawâhirî in un video diffuso a settembre 2012.
[5] Qâlû ‘an dawla al-Baghdâdî, Katâ’ib rad‘ al-khawârij, 1436/2015, pp. 10-11.
[6] Ibi, p. 12.