domenica 8 ottobre 2017

Le metamorfosi del califfato

Recensione di Hugh Kennedy, Caliphate. The History of an Idea, Basic Books, New York 2016




Se c’è un’idea politica forte, che da quattordici secoli domina la storia islamica, è proprio quella del califfato. In suo nome si è combattuto e ucciso, come testimoniano la vicenda dell’assassinio del terzo califfo ‘Uthmān, l’uccisione di Husayn e le violenze commesse oggi dallo Stato Islamico; in suo nome sono stati versati fiumi d’inchiostro – dai trattati di Māwardī (m. 1058), Juwaynī (m. 1085) e Ghazālī (m. 1111), primi teorici di questa nozione, alle dissertazioni dei contemporanei. Ci sono stati momenti nella storia in cui questa idea di governo ha inciso profondamente nell’organizzazione della comunità musulmana, e momenti in cui essa è risultata quasi ininfluente. Nel Novecento, dopo la dissoluzione del califfato ottomano (1924), con la nascita di movimenti islamisti e jihadisti, l’idea è ritornata in primo piano.

Caliphate. The History of an Idea di Hugh Kennedy, professore di arabo alla School of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra, esamina l’evoluzione storica di questa nozione e il suo uso e abuso nei secoli. Partendo dai primi quattro califfi “ben guidati”, Kennedy ripercorre i momenti salienti del califfato omayyade e abbaside, dedica un capitolo ai califfi fatimidi in Tunisia ed Egitto, esamina il sultanato ottomano e conclude con una riflessione sull’appropriazione indebita di questa nozione da parte dello Stato islamico.

L’obbiettivo del volume è sradicare l’idea, piuttosto diffusa, che il califfato sia un’istituzione dai fondamenti evidenti, rimasta immutata nei secoli, mettendo in luce come invece questa forma di governo abbia subito più volte aggiustamenti dettati dalle circostanze storiche. Basti pensare al dibattito seguito alla morte di Muhammad in merito a chi dovesse dirigere la umma e di quali prerogative dovesse essere investito. Per alcuni, il califfo doveva appartenere semplicemente alla tribù dei Quraysh (perciò poteva essere anche un omayyade), per altri doveva essere un membro dei Banū Hāshim, il clan del Profeta, mentre altri ancora, i kharijiti, ritenevano che tutti i musulmani maschi fossero potenziali candidati. Vi era poi chi contemplava l’ereditarietà del califfato e chi invece ammetteva la designazione diretta (nass) del successore. Tutte queste opzioni, spiega Kennedy, aprivano a una serie di altre considerazioni. La successione ereditaria poneva il problema di stabilire quale ramo della famiglia di Muhammad potesse accedere alla carica e la questione del diritto di primogenitura e implicava potenzialmente l’infallibilità del califfo che, in quanto tale, poteva interpretare o addirittura modificare il Corano e la Sunna (visione sciita). Se invece il califfo era nominato dagli uomini, non poteva essere considerato infallibile, ed è la ragione per cui, in ambito sunnita, l’interpretazione del Corano e della sharī‘a sarebbe diventata, dal X secolo in avanti, una prerogativa degli ulema e dei giuristi anziché del califfo.

Soprattutto nei primi quattro secoli non si seguì una prassi precisa e univoca: il primo califfo Abū Bakr non faceva parte della famiglia di Muhammad e fu eletto da un gruppo ristretto di musulmani da cui ‘Alī era rimasto escluso; ‘Umar, suo successore, fu nominato personalmente da Abū Bakr, mentre ‘Uthmān fu eletto da un consiglio voluto da ‘Umar e formato da sei uomini tra cui ‘Alī. Quest’ultimo invece divenne quarto califfo senza ricevere un’investitura formale e dovette conquistare la carica sul campo nella celebre battaglia del Cammello. Ciò conferma – conclude l’autore – che i tentativi odierni di ripristinare il califfato rifacendosi alla tradizione sono arbitrari perché la storia islamica ha prodotto califfati anche molto diversi tra loro, non riducibili a un modello unico.


Pensato per un lettore non specialista, il libro di Kennedy è uno strumento imprescindibile per chi voglia conoscere l’evoluzione storica di questa istituzione, cogliere il peso che essa ha avuto nella formazione della cultura politica islamica e le ripercussioni nel presente. L’istituzione califfale, infatti, non può essere compresa a prescindere dal contesto storico in cui è stato plasmata.

[Recensione pubblicata su Oasis n. 25 (giugno 2017)]

giovedì 13 luglio 2017

Evoluzione del jihad in Europa, dagli anni ’90 a oggi

Recensione di Petter Nesser, Islamist Terrorism in Europe. A History, Hurst Publishers, London 2015



Vigilia di Natale 1994: il volo Air France 8969 viene dirottato dal GIA, Gruppo Islamico Armato algerino. Nel corso dell’operazione tre passeggeri perdono la vita, mentre i quattro dirottatori sono uccisi a Marsiglia dalla Gendarmerie nationale che fa irruzione sull’aereo. Fu quello il giorno in cui l’Europa conobbe per la prima volta sul proprio suolo il terrorismo di matrice islamista, che nei vent’anni seguenti non l’avrebbe più abbandonata. Su questo arco di tempo si concentra Petter Nesser, del Centro di ricerca della difesa norvegese, e autore delle oltre trecento pagine che ripercorrono la storia del terrorismo islamico in Europa. Analizzando ogni singolo attacco terroristico di matrice islamista avvenuto nel continente, Nesser indaga come si sono evolute le reti jihadiste in Europa dagli anni ’90 a oggi, i target e il modus operandi degli attentatori, cercando di trovare una sintesi tra la teoria del “leader-led jihad” di Bruce Hoffman e quella del “leader-less jihad” di Marc Sageman

Secondo la prima, gli attacchi sarebbero sempre architettati da un leader (al-Qaida negli anni 2000); per la seconda il jihad è opera dei singoli che, di loro iniziativa, intercettano altri potenziali jihadisti e creano una rete. Questi ultimi si convertirebbero al jihadismo creando movimenti autonomi non tanto per motivazioni ideologiche, quanto per ragioni psico-sociologiche (mancata integrazione nella società, frustrazione, ricerca di un’identità forte, ribellione ai genitori…). Secondo Nesser, se considerate singolarmente, le due teorie sono riduttive e impediscono di comprendere fino in fondo il fenomeno. Per esempio la teoria di Hoffman è utile per spiegare gli attentati di dimensioni maggiori e coordinati da un leader (come la strage nella metropolitana di Londra nel 2005), ma non riesce a rendere conto degli attentati più piccoli, come quello al regista olandese Theo van Gogh, ucciso nel 2004 ad Amsterdam per le immagini del suo film Submission. Combinando i due approcci, e concentrandosi con grande rigore analitico sulle traiettorie individuali, Nesser individua quattro diversi tipi di terrorista jihadista: l’“imprenditore”, il “protetto”, il “vagabondo” e il “disadattato”. Allo stesso tempo però presta anche molta attenzione all’intreccio di eventi locali, regionali e internazionali che fanno da retroterra agli attentati.

Se la Francia è stata la prima vittima del terrorismo islamista, spiega Nesser, la Gran Bretagna è il Paese in cui negli anni ’90 è nata la prima comunità jihadista, formando quello che sarebbe diventato noto come Londonistan. In generale l’Europa, con le libertà previste dai suoi regimi democratici, era il luogo ideale per creare una sotto-cultura nelle moschee radicalizzate, raccogliere finanziamenti e reclutare nuovi membri sfruttando anche il potenziale dei social media. Così da un lato essa era percepita come una presenza minacciosa per le sue politiche estere, ma dall’altro fungeva da rifugio per i suoi cittadini naturalizzati, concedendo loro ampio margine di manovra. Fino alla metà degli anni 2000, fu il secondo aspetto a prevalere, garantendo all’Europa un “patto di sicurezza”. Poi l’impegno dei Paesi europei in Afghanistan e Iraq, la vicenda delle vignette satiriche e le operazioni israeliane a Gaza, secondo l’autore, cambiarono la situazione, cancellando il “patto”. L’ascesa dello Stato Islamico ha fatto il resto, trasformando l’Europa in un bersaglio privilegiato dei jihadisti e creando un clima di insicurezza che il ritorno dei foreign fighters dalla Siria contribuirà probabilmente a peggiorare.


Da quando il jihadismo è tornato a colpire nel nostro Continente, non sono mancate le pubblicazioni sul tema. Pochi libri però possono vantare il rigore, la profondità e l’equilibrio del lavoro di Nesser, uno strumento imprescindibile per chi si occupa di terrorismo islamista.

[Recensione pubblicata su Oasis n. 24 (novembre 2016)]

sabato 22 aprile 2017

Jihadismo: l’ultimo totalitarismo del XX secolo

Recensione di David Bénichou, Farhad Khosrokhavar, Philippe Migaux, Le jihadisme. Le comprendre pour mieux le combattre, Plon, Paris 2015



Le jihadisme. Le comprendre pour mieux le combattre è un libro scritto a tre mani destinato a un pubblico generalista nel tentativo di offrire alcune coordinate che consentano ai cittadini europei di comprendere il fenomeno del jihadismo su tre livelli: storico, sociologico e giuridico. Philippe Migaux, esperto di sicurezza internazionale, offre una panoramica sulle origini storiche dell’ideologia jihadista, definita l’ultimo totalitarismo del XX secolo, e sul nuovo tipo di terrorismo che esso ha generato, ben diverso – tiene a precisare fin dalle prime pagine del libro – dal terrorismo rivoluzionario, che punta a cambiare radicalmente la forma di uno Stato (le Brigate Rosse nell’Italia degli anni ’70), dal terrorismo di liberazione, che reclama l’indipendenza di una parte del territorio dallo Stato (il Fronte di liberazione nazionale corso) o ancora dal terrorismo di Stato, che sostiene con mezzi illegali la diplomazia del governo (Siria, Iraq, Libia prima della guerra).

Migaux ripercorre brevemente le tappe della formazione del pensiero jihadista, dalla nascita del salafismo con Ibn Taymiyya (m. 1328) alla comparsa del wahhabismo teorizzato da Ibn ‘Abd al-Wahhāb (m. 1792) fino all’apparizione dei Fratelli musulmani in Egitto nel 1928, la cui elaborazione di un sistema globale fondato sulla religione avrebbe silenziosamente contribuito a modellare la pericolosa ideologia dello Stato Islamico. «Dio è il nostro obbiettivo, il messaggero di Dio la nostra guida, il Corano la nostra Costituzione, il jihad la nostra via […]», diceva Hassan al-Banna, fondatore della Fratellanza. Il pensiero politico di quest’ultimo, che ancora non prevedeva la lotta armata, fu successivamente radicalizzato da Sayyid Qutb il quale riattivò la nozione di jāhiliyya, l’ignoranza preislamica, applicandola alle società non islamiche o rette da governanti empi che era lecito combattere fino all’effusione del sangue, e la pratica del jihad per consentire all’Islam – spiega Migaux – di assicurarsi la leadership dell’umanità. A questo breve excursus storico segue un’utile panoramica sull’evoluzione della strategia jihadista.

Dalla dimensione storica del fenomeno si passa a quella sociologica, antropologica e psicologica con il contributo di Farhad Khosrokhavar, esperto franco-iraniano di Islam sciita ed europeo. La sua riflessione verte sul potere attrattivo che il jihad esercita tra i giovani musulmani in Europa, originando due diverse tipologie di attori: i giovani socialmente esclusi residenti nelle banlieue francesi o nei poor districts inglesi da un lato e, sempre più numerosi, gli adolescenti e i neo-convertiti della classe media. Per Khosrokhavar i giovani jihadisti europei sono attratti non tanto dall’Islam in sé, quanto da ciò che esso rappresenta: esso è diventato la «religione degli oppressi, e attrae tanto i giovani immigrati di seconda, terza o quarta generazione […] quanto i giovani convertiti della classe media, che trovano nell’Islam radicale una dimensione anti-imperialista incarnata negli anni ’70 dai movimenti di sinistra» (p. 269).

Il volume si chiude con un breve contributo di David Bénichou, giurista e vice-presidente del polo antiterrorismo del tribunale di Parigi, che affronta i risvolti giuridici del fatto jihadista, illustrando le 23 misure adottate in Francia nel 2014 per combattere le filiere siriane – rivelatesi evidentemente insufficienti alla luce degli attentati del 2015 – oltre a diverse altre questioni tra cui il cyber-terrorismo e la presa di ostaggi. Accanto a parti molto tecniche e documentate stridono però alcune considerazioni polemiche e provocatorie, che nulla aggiungono ai contenuti, ma alimentano in senso negativo la riflessione: il timore che la laïcité francese, conquistata dopo una lunga lotta di emancipazione dalla Chiesa, possa essere «svenduta alle correnti più estremiste e minoritarie dell’ultimo dei monoteismi» (p. 330).

Nel complesso tuttavia il volume è uno strumento utile e di valore per il lettore non specialista che intenda approfondire un fenomeno che lo riguarda sempre più da vicino.  

[Recensione pubblicata su Oasis n. 23 (giugno 2016)]




sabato 25 febbraio 2017

Marocco: l’apostata non rischia più la morte

Svolta degli ulema del regno: abbandonare l’Islam è una questione personale e non rappresenta un reato. Il tentativo di arginare gli estremismi

* Articolo scritto per Fondazione Oasis.

Liberi di abbandonare l’Islam senza rischiare la morte: è la svolta degli ulema del Marocco, i dotti religiosi. L’apostasia, in arabo “ridda, è da sempre un tema critico e molto dibattuto nel mondo musulmano. Nel diritto islamico infatti è considerata un reato punibile con la pena di morte. I due casi più noti in Occidente sono quello di Salmān Rushdie, autore del romanzo I versi satanici, che nel 1989 gli valse la fatwa con cui l’ayatollah Ruhollah Khomeini chiedeva di condannarlo a morte, e il caso di Nasr Hāmid Abū Zayd, intellettuale egiziano condannato nel 1995 per aver avanzato un’interpretazione storico-razionalistica del Corano. Si è poi rifugiato in Olanda.

Ciclicamente, intellettuali, ulema, giurisperiti e politici musulmani ritornano sulla domanda se l’apostata meriti un castigo terreno o se invece la punizione sia prerogativa esclusiva di Dio nell’aldilà. Se in molti momenti della storia è prevalsa la prima interpretazione, a questa oggi se ne affiancano altre, che mettono in discussione la pena tradizionalmente comminata all’apostata (murtadd), ma anche il significato stesso del termine.

In questo senso sono inedite le dichiarazioni rilasciate solo pochi giorni fa dal Consiglio scientifico superiore del ministero degli Habous (Affari religiosi) marocchino che, in Sabīl al-‘ulamā’ (La via degli ulema), volume di oltre 150 pagine, prende le distanze dalla tradizionale accezione di apostasia e dalla pena prevista per questo reato. Secondo questo documento Murtadd non sarebbe infatti chi abbandona l’Islam a favore di un’altra religione, ma chi tradisce il proprio gruppo di appartenenza.

«La comprensione più corretta della questione dell’apostasia risiede nello spirito della tradizione e della biografia del Profeta, che per apostata intende il traditore del gruppo (khā’in al-jamā‘), colui che ne rivela i segreti e lo danneggia facendosi forza dei suoi avversari, ciò che è equiparabile all’alto tradimento per le leggi internazionali» si legge nel documento. La commissione di fatto propone una nuova interpretazione dei due hadīth (detti del Profeta) tradizionalmente citati a sostegno dell’apostasia, calandoli nelle circostanze storiche in cui sarebbero stati rivelati: “Chi cambia la sua religione, uccidetelo”, e “Chi abbandona la religione è colui che si stacca dal gruppo”. In un contesto di guerre endemiche qual era il periodo in cui nacque l’Islam – spiega il documento – abbandonare i musulmani significava unirsi ai miscredenti. L’apostasia era perciò di natura politica, non dottrinaria.

Ulema marocchini

Secondo gli ulema, quest’accezione di apostasia sarebbe evidente in alcuni fatti storici dell’epoca. Abū Bakr, il primo dei quattro Califfi ben guidati, il quale secondo la tradizione era solito muovere guerra contro gli apostati intesi come traditori politici, perché, rifiutando di sottomettersi all’imam, dividevano l’unità del gruppo e inficiavano la comprensione della religione distruggendone i pilastri.

Quanto alla pena da comminare agli apostati, l’accordo di Hudaybiyya – spiegano gli ulema – prevedeva che chi si fosse convertito all’Islam e in seguito fosse tornato (irtadda) alla tribù dei Quraysh non avrebbe più dovuto essere cercato dai musulmani, mentre i miscredenti che avessero voluto unirsi ai musulmani sarebbero stati accolti nella umma. Che infliggere la morte non sia lecito sarebbe evidente anche in un hadīth successivo, rivelato dopo che un beduino convertitosi all’Islam tornò sui suoi passi chiedendo di poter annullare la sua professione di fede (shahāda). Secondo la tradizione il Profeta accolse la richiesta senza fare alcun male al uomo e poi rivelò il detto seguente: «Medina è come il mantice, espelle la sua malvagità e fa risplendere il buono».

Un’ulteriore evidenza dell’illiceità della pena di morte sarebbe un passo coranico nella sura della Vacca: “Quanto a quelli di voi che avranno abbandonato la fede e saran morti negando, vane saranno tutte le opere loro in questo mondo e nell’altro, e saranno dannati al fuoco, dove rimarranno in eterno” (2,217).
In definitiva, secondo il ministero degli Affari religiosi non c’è apostasia se chi abbandona l’Islam lo fa senza minacciare la coesione della comunità.

Questo passaggio dalla dimensione religiosa a quella politica costituisce peraltro un superamento della posizione assunta dagli stessi Habous nel 2012 – anno a cui risale la fatwa in cui il ministero marocchino confermava la pena di morte per gli apostati dell’Islam – e sarebbe stato imposto dalle nuove condizioni che oggi l’Islam vive a causa dei gruppi estremisti, che giustificano atti di violenza e sangue abusando della tradizione decontestualizzandola. Dal Marocco all’Egitto, diverse istituzioni islamiche tradizionali in questo momento storico collaborano con i governi per rafforzare un approccio meno letterale dei testi in funzione anti-fondamentalista. Occorrerà adesso capire dove poterà in concreto la svolta degli ulema marocchini: il diritto penale marocchino già non prevedeva la pena di morte per l'apostata e si apre adesso la questione di chi deciderà caso per caso se l'apostasia è politica o religiosa.

La decisione degli ulema marocchini rappresenta una posizione condivisa da molti pensatori musulmani riformisti, ma che per la prima volta è fatta propria in maniera così esplicita da una istituzione religiosa ufficiale.

Per esempio, dopo le rivoluzioni arabe del 2011, anche al-Azhar, tra le più prestigiose istituzioni dell’Islam sunnita, ha pubblicato una importante dichiarazione sull’ordinamento delle libertà fondamentali, tra le quali menzionava la libertà di credo, ma senza fare riferimenti alla questione dell’apostasia, lasciando di fatto la questione in sospeso.


La via scelta dagli ulema marocchini si colloca a metà strada tra due estremi. Da un lato vi è chi, come l’intellettuale l’egiziano Ahmad Subhī Mansūr, rifiuta l’autenticità degli hadīth  su cui si fonda la pena prevista per l’apostata e rimanda alla disciplina prevista dal Corano, che riserva a Dio il giudizio su chi abbandona l’Islam. Dall’altro chi invece, rifacendosi alla dottrina tradizionale e adottando un approccio letterale ai testi, vorrebbe continuare a punire l’apostata con la morte, come indicato nei due hadīth. Gli ulema marocchini non mettono in discussione la bontà della tradizione testuale, ma vi si accostano con una lettura contestuale.