Svolta
degli ulema del regno: abbandonare l’Islam è una questione personale e non
rappresenta un reato. Il tentativo di arginare gli estremismi
* Articolo scritto per Fondazione Oasis.
Liberi di abbandonare l’Islam
senza rischiare la morte: è la svolta degli ulema del Marocco, i dotti
religiosi. L’apostasia, in arabo “ridda”,
è da sempre un tema critico e molto dibattuto nel mondo musulmano. Nel diritto
islamico infatti è considerata un reato punibile con la pena di morte. I due
casi più noti in Occidente sono quello di Salmān Rushdie, autore del romanzo I
versi satanici, che nel
1989 gli valse la fatwa con cui
l’ayatollah Ruhollah Khomeini chiedeva di condannarlo a morte, e il caso di Nasr
Hāmid Abū Zayd, intellettuale egiziano condannato nel 1995 per aver avanzato
un’interpretazione storico-razionalistica del Corano. Si è poi rifugiato in
Olanda.
Ciclicamente, intellettuali, ulema,
giurisperiti e politici musulmani ritornano sulla domanda se l’apostata meriti
un castigo terreno o se invece la punizione sia prerogativa esclusiva di Dio
nell’aldilà. Se in molti momenti della storia è prevalsa la prima
interpretazione, a questa oggi se ne affiancano altre, che mettono in
discussione la pena tradizionalmente comminata all’apostata (murtadd), ma anche il
significato stesso del termine.
In questo senso sono inedite le
dichiarazioni rilasciate solo pochi giorni fa dal Consiglio scientifico superiore
del ministero degli Habous (Affari religiosi) marocchino che, in Sabīl
al-‘ulamā’ (La via degli ulema), volume di oltre 150 pagine, prende le
distanze dalla tradizionale accezione di apostasia e dalla pena prevista per
questo reato. Secondo questo documento Murtadd
non sarebbe infatti chi abbandona l’Islam a favore di un’altra religione, ma
chi tradisce il proprio gruppo di appartenenza.
«La
comprensione più corretta della questione dell’apostasia risiede nello spirito
della tradizione e della biografia del Profeta, che per apostata intende il
traditore del gruppo (khā’in
al-jamā‘), colui che ne rivela i segreti
e lo danneggia facendosi forza dei suoi avversari, ciò che è equiparabile
all’alto tradimento per le leggi internazionali» si legge nel documento. La
commissione di fatto propone una nuova interpretazione dei due hadīth
(detti del Profeta) tradizionalmente citati a sostegno dell’apostasia,
calandoli nelle circostanze storiche in cui sarebbero stati rivelati: “Chi
cambia la sua religione, uccidetelo”, e “Chi abbandona la religione è colui che
si stacca dal gruppo”. In un contesto di guerre endemiche qual era il periodo
in cui nacque l’Islam – spiega il documento – abbandonare i musulmani
significava unirsi ai miscredenti. L’apostasia era perciò di natura politica,
non dottrinaria.
Ulema marocchini |
Secondo
gli ulema, quest’accezione di apostasia sarebbe evidente in alcuni fatti
storici dell’epoca. Abū Bakr, il primo dei quattro Califfi ben guidati, il
quale secondo la tradizione era solito muovere guerra contro gli apostati
intesi come traditori politici, perché, rifiutando di sottomettersi all’imam, dividevano
l’unità del gruppo e inficiavano la comprensione della religione distruggendone
i pilastri.
Quanto
alla pena da comminare agli apostati, l’accordo di Hudaybiyya – spiegano gli
ulema – prevedeva che chi si fosse convertito all’Islam e in seguito fosse
tornato (irtadda) alla tribù dei Quraysh non avrebbe più dovuto
essere cercato dai musulmani, mentre i miscredenti che avessero voluto unirsi
ai musulmani sarebbero stati accolti nella umma. Che infliggere la morte non sia lecito sarebbe
evidente anche in un hadīth successivo, rivelato dopo che un beduino convertitosi
all’Islam tornò sui suoi passi chiedendo di poter annullare la sua professione
di fede (shahāda). Secondo la tradizione il Profeta accolse la
richiesta senza fare alcun male al uomo e poi rivelò il detto seguente: «Medina
è come il mantice, espelle la sua malvagità e fa risplendere il buono».
Un’ulteriore
evidenza dell’illiceità della pena di morte sarebbe un passo coranico nella
sura della Vacca: “Quanto a quelli di voi che avranno abbandonato la fede e
saran morti negando, vane saranno tutte le opere loro in questo mondo e
nell’altro, e saranno dannati al fuoco, dove rimarranno in eterno” (2,217).
In definitiva, secondo il ministero
degli Affari religiosi non c’è apostasia se chi abbandona l’Islam lo fa senza minacciare
la coesione della comunità.
Questo passaggio dalla
dimensione religiosa a quella politica costituisce peraltro un superamento
della posizione assunta dagli stessi Habous nel 2012 – anno a cui risale la fatwa
in cui il ministero marocchino confermava la pena di morte per gli apostati
dell’Islam – e sarebbe stato imposto
dalle nuove condizioni che oggi l’Islam vive a causa dei gruppi estremisti,
che giustificano atti di violenza e sangue abusando della tradizione
decontestualizzandola. Dal Marocco all’Egitto, diverse istituzioni islamiche
tradizionali in questo momento storico collaborano con i governi per rafforzare
un approccio meno letterale dei testi in funzione anti-fondamentalista.
Occorrerà adesso capire dove poterà in concreto la svolta degli ulema
marocchini: il diritto penale marocchino già non prevedeva la pena di morte per
l'apostata e si apre adesso la questione di chi deciderà caso per caso se l'apostasia
è politica o religiosa.
La decisione degli ulema
marocchini rappresenta una posizione condivisa da molti pensatori musulmani
riformisti, ma che per la prima volta è fatta propria in maniera così esplicita
da una istituzione religiosa ufficiale.
Per esempio, dopo le
rivoluzioni arabe del 2011, anche al-Azhar, tra le più prestigiose istituzioni
dell’Islam sunnita, ha pubblicato una importante dichiarazione
sull’ordinamento delle libertà fondamentali, tra le quali menzionava la
libertà di credo, ma senza fare riferimenti alla questione dell’apostasia,
lasciando di fatto la questione in sospeso.
La via scelta dagli ulema
marocchini si colloca a metà strada tra due estremi. Da un lato vi è chi, come
l’intellettuale l’egiziano Ahmad Subhī Mansūr, rifiuta l’autenticità degli hadīth
su cui si fonda la pena prevista per
l’apostata e rimanda alla disciplina prevista dal Corano, che riserva a Dio il
giudizio su
chi abbandona l’Islam. Dall’altro chi invece, rifacendosi alla dottrina
tradizionale e adottando un approccio letterale ai testi, vorrebbe continuare a
punire l’apostata con la morte, come indicato nei due hadīth. Gli ulema
marocchini non mettono in discussione la bontà della tradizione testuale, ma vi
si accostano con una lettura contestuale.