martedì 19 luglio 2016

Perché il golpe in Turchia è fallito

[Voci dal mondo arabo]

Che cosa scrivono i giornali arabi del colpo di Stato fallito in Turchia

Turchia: perché il golpe del 2016 è fallito?

Al-Safir, 18 luglio 2016. Di Mustafa al-Libad

[…] Il quinto colpo di Stato in Turchia è fallito contrariamente ai quattro golpe precedenti (1960,1971,1980 e 1997). [Le ragioni] di questo fallimento risiedono nel fatto che non si sono verificate le condizioni necessarie alla buona riuscita. […] Dopo il fallimento del golpe, come d’abitudine, nella nostra zona è andata diffondendosi la “teoria del complotto”. In sostanza, lo stesso Erdoğan avrebbe ideato il colpo di Stato per liquidare gli avversari. Questa teoria è improbabile. Quella turca infatti è una società complessa a cui mal si adatta una visione così semplicistica delle cose, oltre al fatto che Erdoğan è nella lista dei perdenti nonostante il golpe sia fallito. Fatti salvi il tempo e il luogo, il fallito golpe turco del 2016 può essere paragonato al golpe russo, anch’esso fallito, del 1991. In Russia Gorbaciov non ha avuto alcun vantaggio nonostante il fallimento del colpo di Stato. Boris Eltsin ne ha tratto vantaggio, e l’Unione Sovietica si è disintegrata.

Gli otto requisiti mancanti

[…] Nel recente colpo di stato è mancata l’unità nelle istituzioni militari. Probabilmente, la notizia precoce del colpo di stato e il sequestro del capo di Stato maggiore Hulusi Acar erano indizi evidenti del contrasto tra i golpisti e la leadership dell’esercito. Vale la pena ricordare che la carica di ministro della difesa in Turchia, attualmente affidata al generale Fikri Işık è una carica politica, mentre la carica militare più altra rimane il capo di Stato maggiore dell’esercito turco. […]

Il secondo requisito assente è la presenza di figure militari di primo piano come leader del golpe, come avvenne con la nomina del generale Cemal Gürsel nel 1960, con il Capo di Stato Maggiore generale Mamdou Tagmac nel 1971, con il Capo di Stato maggiore generale Kenan Evren nel 1980, e con una serie di alti ufficiali turchi nel 1997 primi fra i quali i generali İsmail Hakkı Karadayı, Çevik Bir e Çetin Doğan. Nel golpe recente sono emersi i nomi dell’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Akın Öztürk, del colonnello Muharram Kusa consigliere del Capo di Stato Maggiore, e quello di Öztürk Hakan Karakuş pilota di grado medio. […] Il confronto tra i nomi e i gradi di questi ultimi e quelli degli alti ufficiali dei golpe riusciti è un prova chiara della mancanza di questo secondo requisito. 

Il terzo requisito che è mancato nel recente colpo di stato è il sostegno popolare. I quattro golpe riusciti in Turchia si erano infatti distinti per l’adesione dei gruppi e dei partiti politici in un contesto di ampia polarizzazione politica. Per quanto nella Turchia contemporanea vi sia una polarizzazione politica importante il rifiuto, fin dall’inizio, del colpo di stato da parte dei tre partiti di opposizione (il “Partito popolare repubblicano” laico, il “Partito democratico del popolo” curdo e il “Partito del movimento nazionalista” di destra) ha contribuito notevolmente a delegittimarlo. 

Il quarto requisito assente è il controllo da parte dei golpisti del governo, del parlamento e dei simboli del governo eletto. […]

La quinta condizione che non si è verificata nel recente colpo di stato è il controllo da parte dei golpisti dei mezzi di comunicazione. Il “primo annuncio” del golpe è stato dato da una delle presentatrici del canale TRT, lo stesso che poi ha annunciato il fallimento del golpe dopo che i golpisti sono stati fatti evacuare dalla sede della TV. 

La sesta condizione per il successo di un golpe in Turchia è l’identificazione dei golpisti nell’ideologia kemalista laica, che vede nell’esercito il protettore della Repubblica. Ciò è evidente nel discorso che i golpisti utilizzano per influenzare l’opinione pubblica turca. Rispetto alla “prima dichiarazione” dei quattro golpe riusciti, la “prima dichiarazione” del colpo di stato fallito era priva di quel contenuto ideologico, nonostante la ripresa di alcune frasi in stile Atatürk come “pace all’interno e all’esterno” e “difesa della laicità” […]

La settima condizione che consente la buona riuscita di un golpe è un coordinamento preventivo tra i golpisti e i rami "profondi dello Stato" ovvero la polizia, la magistratura e i media, ciò che è mancato nell’ultimo golpe. […]

Infine, a fare la differenza in questo ultimo golpe rispetto ai precedenti è stato lo scarso numero di soldati che hanno preso parte al colpo di Stato […].

Vignetta di al-Quds al-Arabi, 16 luglio 2016




Ha vinto Erdogan?

Al-Masri al-Youm, 18 luglio 2016. Di Amr al-Shubaki

[…] Nonostante la crudeltà di alcune scene turche nel giorno del colpo di stato, la domanda più importante, che esula dalle teorie sciocche secondo le quali Erdoğan avrebbe organizzato un colpo di stato per sbarazzarsi dei comandanti dell’esercito (la verità è che i comandanti stavano dalla sua parte, e chi ha organizzato il colpo di stato erano per lo più colonnelli insieme a non più di cinque generali), riguarda il futuro di Erdoğan e se per quest’ultimo la battaglia sia o meno un trionfo politicamente parlando. 

Nei confronti di chi ha partecipato al golpe Erdoğan agirà con lo stesso spirito di vendetta che era solito mettere in campo contro la dissidenza? Si troverà forse a combattere una nuova battaglia contro le istituzioni statali, l’esercito in primis – una battaglia iniziata con la destituzione di oltre 2000 giudici, e processerà i loro omologhi dell’esercito?

La verità è che Erdoğan è uscito più forte dal tentativo fallito di golpe, ma la sua è una forza temporanea. Qualcosa infatti si è spezzato, la convinzione cioè che nessuno sarebbe riuscito a sottrargli il potere, per poi scoprire improvvisamente che nel suo esercito c’è una corrente che gli si rivolta contro, desiderosa di annientarlo.  

Quello che è certo è che il regime di Erdoğan è il primo responsabile della divisione sociale che sta conoscendo la Turchia, e che la campagna lanciata contro i suoi avversari, in particolare i giovani di tutte le correnti, la stampa, Facebook e i social media, è la guerra condotta da un sistema autoritario contro tutti i dissidenti. Poi è arrivato il giorno in cui proprio questi strumenti di cui aveva decretato la chiusura e attraverso cui ha dissuaso dal colpo di stato lanciando il messaggio su Twitter in cui chiedeva ai sostenitori di scendere in strada, l’hanno salvato. […]

martedì 12 luglio 2016

Il terrorismo nei luoghi sacri

[Voci dal mondo arabo]

Come ha reagito la stampa araba agli attentati di Medina

Al-Masri al-Youm, 6 luglio 2016. Di Amr al-Shubaki

Se un attentatore suicida dell’Isis prende di mira le forze di sicurezza saudite durante il mese sacro, nel momento dell’appello alla preghiera del tramonto, e per di più nei pressi della tomba dell’Inviato (Maometto, Ndt) significa che siamo di fronte a una metamorfosi delle operazioni terroristiche. Nell’impatto quattro uomini della sicurezza hanno perso la vita, una scena che ha urtato i sentimenti religiosi di ogni musulmano oltre a quelli umani. Chi ha chiuso gli occhi davanti ai crimini dell’Isis perché questo prende di mira altre confessioni e religioni è complice quanto il kamikaze; i crimini che questa organizzazione commette contro gli arabi e i musulmani sunniti sono infatti maggiori di quelli che commette contro i musulmani sciiti o i non-musulmani. Chi è rimasto in silenzio di fronte all’esplosione avvenuta nel quartiere di Karrada a Baghdad, che ha provocato oltre 130 vittime, per lo più sciite, e ha pensato che ciò che è accaduto ad al-Qatif, a maggioranza sciita, non si sarebbe ripetuto a Medina o a Mecca è altrettanto colpevole, perché il terrorismo dell’Isis è un terrorismo assassino e i criminali non hanno patria, religione né confessione.

Un attentatore che si fa esplodere vicino alla moschea del Profeta riflette la trasformazione dei gruppi terroristici e il passaggio dalla fase del gruppo jihadista che accusa di miscredenza (takfīr) un governante o un sistema, ma limita l’uccisione dei semplici civili (come la Jamā‘at al-Islāmiyya e il Tanzīm al-Jihād in Egitto) e non compie operazioni suicide, alla fase dei gruppi takfiristi che non pongono alcun limite all’uccisione e allo sgozzamento quotidiani, come avviene in Iraq, Siria, Egitto, Tunisia, Francia, Turchia e America fino ad arrivare al cuore delle terre sacre dei musulmani, Medina.     

La metamorfosi dei gruppi terroristici è iniziata probabilmente dopo gli attacchi dell’11 settembre e la guerra dell’America al terrorismo, che ha favorito la diffusione di quest’ultimo. All’epoca comparve una nuova specie di terroristi, diversi rispetto ai vecchi terroristi. I nuovi erano in parte utenti dei social network, ma provenivano perlopiù da organizzazioni ideologiche che hanno banalizzato le norme relative a “dār kufr (casa della miscredenza)”, “dār ridda (casa dell’apostasia)”, “dār Islām (casa dell’Islam)”, “dār da‘wa (casa della Chiamata)”… fino a compiere operazioni terroristiche nei pressi della tomba del Profeta dell’Islam. 

I gruppi terroristici sono passati dal conflitto contro il potere interno con l’obbiettivo di farlo cadere e realizzare il loro progetto islamista, alla vendetta contro il mondo e l’umanità, nonostante sappiano bene di non essere capaci di far cadere un regime né in Medio-Oriente né in Occidente ma solamente di cercar vendetta contro il sistema, democratico o autoritario, e contro il popolo, musulmano o non-musulmano. Questi gruppi infatti sono cresciuti a suon di slogan superficiali e takfiristi che si ripetono sui social network, e che in poche settimane preparano giovani frustrati a intraprendere operazioni suicide, sconosciute alle organizzazioni jihadiste del secolo scorso.   

L’Iraq e la Siria sono diventati le nutrici per eccellenza del nuovo terrorismo perché offrono un ambiente fertile che attrae persone frustrate, mosse dal desiderio di sopraffazione, vendetta e denaro, e prive di formazione dottrinale. A un giovane del Tanzīm al-Jihad e della Jamā‘at Islāmiyya occorrevano anni di preparazione psicologica, dottrinale e religiosa prima di imbracciare un’arma e uccidere una persona. Ora invece un giovane è pronto a prendere le armi in pochi giorni e in poche settimane a compiere un attentato. Questo perché non è guidato da moventi propriamente dottrinali, ma dalla vendetta e dall’emarginazione e, a volte, dal denaro, benché questi siano riempiti di termini religiosi.

I sociologi e gli psicologi, e non solo gli esperti della sicurezza, dovrebbero studiare a fondo i moventi dell’attentatore suicida di Medina. Egli è parte di un’organizzazione che odia l’Islam e i musulmani e combatte tanto i sunniti quanto gli sciiti. Dio abbia pietà dei martiri del terrorismo in Arabia Saudita e in tutto il mondo.  

(Traduzione di Chiara Pellegrino per Fondazione Oasis)


mercoledì 6 luglio 2016

ISIS è “sintomo di una malattia, non la malattia stessa”

[Voci dal mondo arabo]


Breve rassegna della stampa araba



Al-Hayat, 4 luglio 2016. Di Jihad al-Khazin

Noi siamo una umma che si suicida ogni giorno, che trova sempre un nuovo modo di suicidarsi, lo sperimenta e il giorno successivo passa a un altro. Chi non è morto di spada è morto di qualcos’altro, e a noi non resta che dare l’annuncio del decesso e poi le disposizioni per la sepoltura. Se la decisione spettasse a me, porterei i cadaveri in una fornace come fanno in Occidente per far sì che la umma diventi polvere dispersa anziché una tomba sulla quale i nemici scrivono parole di vendetta e gioia maligna. 
È finito il tempo della rinascita araba (nahda); a una generazione ne è succeduta un’altra, siamo passati dalla catastrofe (nakba) alla disfatta (naksa), e i sogni di unità, prosperità e pace sono andati perduti. Alla pace è seguita la sottomissione, e nessuno ci ha voluti. Abbiamo mendicato un futuro migliore dai Paesi che ci hanno colonizzato, rubato il passato e il presente e poi abbandonati sulla via dell’annichilimento. Nel momento in cui nessuno ci ha considerati, ci siamo rivolti gli uni contro gli altri, ci siamo uccisi a vicenda e abbiamo distrutto il futuro come nessun nemico ha mai fatto. Poi abbiamo accusato un nemico inesistente attribuendogli la responsabilità per ciò che abbiamo commesso noi. 
Una nazione verso l’annichilimento, che non sa fare altro che cantare e danzare sulle tombe delle vittime. Perché abbiamo lasciato una discendenza? Perché abbiamo tanto desiderato mettere al mondo i figli? Per gettarli nella pattumiera della storia? Che cosa diranno dei padri i figli quando cresceranno? Cresceranno o saranno mangiati dai pesci del mare? 
Dopo Farouq Umar [bin al-Khattab, secondo califfo ben guidato, Ndt], Mu‘ammar Gheddafi. Dopo Khalid bin al-Walid [ibn al-Mughira, condottiero arabo delle origini, Ndt], Saddam Hussein. Dopo Muhammad ‘Abduh e Jamal al-Din al-Afghani, al-Zarqawi e al-Baghdadi. Dov’è il “sostegno sicuro” [Corano 2,257 e 31,21, Ndt]? Si troverà un giorno? Abbiamo gettato le basi dell’astronomia e abbiamo perso la strada di casa. Abbiamo scoperto lo zero, l’abbiamo dato ad altri e noi siamo rimasti a zero. Abbiamo fatto evolvere la medicina e i medicinali e ci siamo ammalati. Nella matematica abbiamo contribuito all’algebra e la geometria e abbiamo finito per essere frazioni decimali del mondo. […] 
E il futuro? Il futuro è di chi lo costruisce. Noi viviamo nel passato. Una parte di esso è stato glorioso e ha prodotto invenzioni. Nella nostra storia abbiamo quanto basta per andar fieri, se non fosse che andiamo fieri di una gloria inesistente, di vittorie che non sono mai arrivate, e di eroismi leggendari. […] 


Vignetta di Al-Quds al-‘Arabi, 3 luglio 2016.
Attacco terroristico in Bangladesh





Al-Sharq al-Awsat, 4 luglio 2016. Di Ma’mun Fandy

Non avrei mai immaginato di guardare un giorno la cartina del mondo arabo e vederne i confini tracciati con il sangue, da Baghdad a Damasco fino a Tripoli di Libia e Tripoli del Libano. […] È giusto domandarci chi sia il responsabile di questo spettro spaventoso, se la nostra cultura, le nostre politiche oppure i media, che diffondono quotidianamente queste immagini anche durante la fascia oraria protetta. […] Qual è la soluzione? Ridisegnare i tratti culturali delle nostre società? Dare l’esempio ai nostri figli e alle nostre figlie? Oppure adottare politiche specifiche per mettere fine a questa condizione di apatia di fronte alla mappa del sangue, politiche che facciano i conti con le radici del problema? L’esempio è senz’altro fondamentale, l’uomo politico deve avere il coraggio di correggere il nostro percorso culturale, anche se così facendo andrà contro corrente. […] 
I nostri responsabili devono pensare a nuove politiche di istruzione, che subisce il peggiore degli sfruttamenti. […] Le nostre istituzioni religiose devono occuparsi della direzione spirituale e di ampliare gli orizzonti della conoscenza delle diverse religioni presenti nelle nostre società. Queste istituzioni devono prendere coscienza del ruolo che è stato loro affidato e non devono usurpare i ruoli altrui. Il problema principale delle nostre società è che la maggior parte di noi non svolge correttamente il proprio ruolo perché è impegnato a svolgere quello degli altri. L’uomo politico fallisce in politica perché vuol essere un uomo di religione, mentre l’uomo di religione fallisce nel presentarsi come modello spirituale perché vuol essere un policy maker. La mappa del sangue che disegna i confini dei nostri Paesi non richiede una soluzione semplice e banale che identifichi la crisi con l’Isis o con gli estremisti: tali manifestazioni sono i sintomi di una malattia, non la malattia stessa. Dobbiamo riflettere a lungo sulla portata e sulla profondità della crisi.