mercoledì 30 dicembre 2015

Al-Azhar propone un ente anti-estremismo e l’Iran parla di “correzione dell’immagine dell’Islam"

Rassegna della Stampa araba

Al-Azhar invita a costituire un ente intellettuale formato da ulama, a sostegno della coalizione islamica

di Walîd ‘Abd al-Rahmȃn, al-Sharq al-Awsat, 22 dicembre 2015

In occasione della celebrazione del Mawlid al-Nabî [anniversario della nascita del Profeta], lo shaykh di al-Azhar, Ahmad al-Tayyib, ha dichiarato che l’estremismo, il terrorismo e il fanatismo non si combattono solamente sul piano securitario e militare ma anche intellettuale e culturale, ciò che consente di distruggere il pensiero estremista che soggiace alle esplosioni, alla distruzione, al terrorismo e alle azioni violente. Al-Tayyib ha invitato a creare un ente costituito da ulama che non abbiamo mai sostenuto il pensiero estremista né emanato fatwe fondamentaliste, e che partecipi alla diffusione della sicurezza e della pace. Questo ente sarà un sostegno intellettuale all’alleanza islamica annunciata recentemente dall’Arabia Saudita. […]

Ibrâhîm Najd, portavoce del muftì, ha dichiarato che l’Osservatorio delle fatwe takfiriste del Consiglio dei muftì ha pubblicato il primo libro di una collana pensata per fronteggiare i gruppi takfiristi e fondamentalisti, dal titolo Daesh, le origini, i crimini e l’opposizione. Il libro – ha spiegato – si divide in sei capitoli. Il primo chiarisce alcune nozioni e termini tecnici islamici che si prestano a essere storpiati dalle organizzazioni violente e takfiriste, tra cui le nozioni di “dȃr al-harb e dȃr al-islȃm” (dove dȃr al-islȃm sono i territori sotto l’Islam e dȃr al-harb – letteralmente la casa della guerra - è tutto quello che non lo è, ndr) “hijra” (l’esodo) e “jihȃd”. Il secondo capitolo è dedicato alla nascita delle organizzazioni takfiriste, ai loro fondamenti concettuali e agli accordi che tali organizzazioni hanno sottoscritto tra loro nel corso della storia […]. Il terzo considera la condotta criminale delle organizzazioni che, sgozzando gli oppositori e i prigionieri di guerra, presenta la storia del sacrificio come si è sviluppato nelle organizzazioni takfiriste, le ragioni che hanno spinto Daesh a produrre la dottrina del sacrificio (‘aqîda al-dhabah) e le loro interpretazioni errate degli hadîth che raccontano le battaglie […]. Il quarto considera le violazioni e lo sfruttamento della donna per soddisfare desideri e obbiettivi terreni che nulla hanno a che vedere con l’Islam; il quinto capitolo tratta dello sfruttamento dei bambini […], della loro vendita come schiavi al mercato, del loro addestramento nei campi e del loro utilizzo come corpi-bombe. […]Infine, il capitolo sesto fa luce sulle operazioni suicide, sui fattori dottrinali, psicologici e sociali, sulle fatwe takfiriste e sulle ragioni per cui Daesh e le altre organizzazioni terroristiche e takfiriste hanno deviato dalla tradizione per quanto riguarda il significato di “jihȃd”.


La libertà della stampa in Egitto
Al-Quds, 16 dicembre 2015













Rouhani esorta i Paesi islamici a “correggere l’immagine dell’Islam”
di al-Hayât, 27 dicembre 2015 

Il presidente iraniano Hassan Rouhani ha dichiarato che sui Paesi islamici grava “l’enorme responsabilità” di “correggere l’immagine dell’Islam nell’opinione pubblica mondiale”. Nel discorso pronunciato a Teheran in occasione dell’apertura della conferenza internazionale dedicata alla “crisi del mondo islamico contemporaneo” ha detto che “spetta ai musulmani oggi eliminare l’immagine negativa dell’Islam”.

Ha inoltre aggiunto che “purtroppo l’84 per cento della violenza, del terrorismo e delle stragi si verificano nel mondo islamico, in Africa, nel Nord Africa, in Medio Oriente e nell’Asia occidentale, e noi dobbiamo combattere l’ideologia e il discorso della violenza diffusi da gruppi estremisti come l’organizzazione dello Stato islamico”. Rouhani ha sottolineato “la necessità di unità e solidarietà tra i musulmani” e ha esortato “tutti i Paesi musulmani della regione e non soltanto a lavorare in questa direzione”. 

Ha aggiunto che “gruppi come Daesh riescono a reclutare combattenti sfruttando la povertà materiale e culturale, che devono perciò essere sradicate dalla società islamica”. “Non è possibile eliminare il terrore e il terrorismo con le bombe” perché a beneficiare dei conflitti nella regione sono “Israele e i nemici dei musulmani”.


Bombardamenti, attacchi ed esplosioni in Siria
Al-Quds, 21 dicembre 2015












L’imamato di Baghdadi e Nasrallah

Di Mishâri al-Dhâydî, Al-Arabiyya, 28 dicembre 2015


[…]“Baghdadi di Daesh” e “Nasrallah dell’Iran” si somigliano molto nei comportamenti, nelle tattiche e nelle tempistiche, nel colore nero dei loro abiti e turbanti, così come nella discendenza alide che vantano entrambi, che è il segno distintivo del “comandante dei credenti” nel caso del “califfo di Daesh”, o del suo rappresentante [del “comandante dei credenti” = Ali Khamenei, ndr] nel caso di Hassan Nasrallah. 

Recentemente “Daesh” ha perso molto a causa dei bombardamenti e soprattutto dopo che è stato privato dell’arteria petrolifera rubata all’Iraq e alla Siria. Anche Nasrallah e la sua nutrice iraniana hanno perso molto in Siria, soprattutto ufficiali della Guardia della Rivoluzione iraniana, ma anche il meglio delle forze di Hezbollah, e la carta “drusa” che era a servizio dell’immagine del Partito iraniano, ovvero Samîr al-Quntȃr, ucciso durante un raid – russo a quanto si dice – in territorio siriano. 


Ma le somiglianze non finiscono qui. Il califfo di “Daesh” condivide con il rappresentante di Khamenei – “il custode dei musulmani”, Hassan Nasrallah, l’odio per l’Arabia Saudita, definita da quest’ultimo “l’essenza del male” nella regione, una visione condivisa anche dal califfo di “Daesh” Ibrahim Awad, o Abu Bakr al-Baghdadi. Per questa ragione il califfo ha riservato una parte del suo ultimo sermone agli attacchi all’Arabia Saudita, che ha assunto la leadership della coalizione islamica militare, securitaria e intellettuale contro il terrorismo.  


Al-Baghdadi ha definito la coalizione islamica militare contro il terrorismo un’alleanza crociata e infedele, e ha incitato i suoi seguaci a compiere operazioni in territorio saudita. Analogamente sta facendo Hezbollah, che colpisce formazioni saudite, bahrenite e yemenite […].



La Turchia e Israele verso la firma di un accordo per normalizzare le loro relazioni
Al-Quds, 18 dicembre 2015



martedì 22 dicembre 2015

Quali sono le "province" di Isis

*Articolo pubblicato originariamente su www.fondazioneoasis.org

Nel tentativo di accreditarsi come entità statale, il gruppo ha diviso territori che occupa e altri che non controlla in wilâyat, ispirandosi agli antichi califfati

Fonte: Intelcenter.com
Le "province" di Isis. Fonte: Intelcenter.com

Le zone in Iraq su cui si estende il “califfato” comprendono alcune province effettive, al-Anbâr, Diyâlâ, Salâh al-Dîn, al-Furât (le zone tra la Siria e l’Iraq lungo il fiume Eufrate), al-Fallûja, Nînawâ (Ninive), al-Jazîra, Dijla (il Tigri), e altre puramente virtuali perché in realtà controllate dal governo di Baghdad (al-Janûb, “il sud”, e Baghdad) o dai curdi (Kirkûk). 

In Siria, invece, lo Stato Islamico ha istituito le province di Aleppo, al-Raqqa (la capitale de facto), al-Khayr (originariamente la provincia di Deir Ezzor), al-Baraka (originariamente al-Hasaka), al-Bâdya (originariamente Homs) e Damasco. Anche in questo caso alcune province sono virtuali perché in realtà controllate dal governo di Damasco tra cui, per l’appunto, la provincia stessa di Damasco, o contese con altre forze ribelli. Tale divisione “amministrativa”, aggiornata al 17 dicembre 2015, è in continua evoluzione: alcune province proclamate nel 2014 oggi non esistono più (es. la provincia di al-Sâhil – il litorale, nella zona di Latakia in Siria), mentre altre sono state ulteriormente divise (es. la provincia di Nînawâ in Iraq è stata divisa in tre province: Nînawâ, al-Jazîra e Dijla).

Lo Stato Islamico ha inoltre riconosciuto altre dieci province al di fuori dell’Iraq e della Siria, in Libia, Egitto, Algeria, Nigeria, Yemen, Arabia Saudita, Russia, Afghanistan e Pakistan. Di queste province, soltanto una parte di quelle libiche e quella sita in Nigeria esercitano un controllo effettivo del territorio. Oltre queste wilâyât, molte altre organizzazioni hanno giurato fedeltà ad Abu Bakr al-Baghdadi ma senza essere a loro volta riconosciute da parte di quest’ultimo. Infine vi sono alcuni gruppi che hanno dichiarato il loro sostegno allo Stato Islamico ma non giurato fedeltà al “califfo”.
Di seguito, una rassegna delle dieci provincie proclamate dallo Stato Islamico esterne al nucleo originario del “califfato” in Iraq e Siria. 

Libia

Wilâyat Barqa (Cirenaica)
Era il 10 novembre 2014 quando Abu Habeeb Al-Jazrawi, un saudita arrivato a Derna a metà settembre assieme ad altri mujahidin, dichiarava fedeltà al “califfo”. Il 13 novembre al-Baghdadi accoglieva la dichiarazione di fedeltà, facendo così nascere la provincia della Cirenaica, in arabo wilâyat Barqa – che deve la sua denominazione al nome dato alla regione orientale della Libia nel passaggio dal dominio romano a quello islamico. Secondo alcune fonti, la provincia conta 800 combattenti e gestisce una mezza dozzina di campi nei dintorni della città in cui si addestrano i combattenti provenienti dal Nord Africa. Il numero di militanti nella provincia è aumentato con il ritorno dalla Siria e dall’Iraq di oltre 300 jihadisti libici, che facevano parte della Brigata al-Battar, prima schierata a Deir Ezzor in Siria, poi a Mosul in Iraq. Una volta rientrati, i militanti si sono affiliati al Consiglio consultivo dei giovani dell’Islam, gruppo pro-Isis che si è formato a Derna nel marzo 2014. Hanno inoltre raggiunto la provincia di Barqa numerosi jihadisti tunisini fuggiti dalla Tunisia quando nel 2013 il governo ha bandito il movimento Ansar al-Sharia. 

Wilâyat Fazzân (Fezzan)
Poco si sa della provincia di Fezzan, nella Libia sud-occidentale. I militanti di questa wilâya desertica sono gli autori di attacchi contro i giacimenti di petrolio e rapimenti di operai. Uno dei comandanti dell’attacco al giacimento petrolifero di al-Mabrouk avvenuto a febbraio 2015 era un ex membro della brigata Tariq Bin Ziyad, gruppo affiliato ad al-Qaida nel Maghreb (Aqmi) guidato da Abdelhamid Abu Zayd, un terrorista e narcotrafficante di origini algerine, morto nel febbraio 2013 in Mali durante uno scontro tra guerriglieri islamisti e truppe francesi e ciadiane.  

Wilâyat Tarâbulus (Tripoli)
Come le altre due province libiche, anche la provincia di Tripoli ha ottenuto il riconoscimento del “califfo” il 13 novembre 2014. La wilâya ha la sua roccaforte nella città di Sirte, dove l’organizzazione Ansar al-Sharia ha dichiarato fedeltà ad al-Baghdadi, pur disertando poco tempo dopo. Il leader spirituale della provincia è Hassan Karami, noto anche come Abu Mu‘awiya al-Libi, mentre il governatore sarebbe un uomo di origine tunisina, Abu Talha al-Tunisi. I militanti della provincia hanno rivendicato l’attentato all’hotel Corinthia di Tripoli del 27 gennaio 2015.

Egitto

Wilâyat Sînâ’ (Sinai)
Il 10 novembre 2014, un jihadista non identificato dell’organizzazione Ansar Bayt al-Maqdis (Abm), attiva dal 2011 nella Penisola del Sinai, dichiarava fedeltà ad al-Baghdadi. In seguito il gruppo si è spaccato: Abm nella Valle del Nilo è infatti rimasto fedele ad al-Qaida. La provincia del Sinai è stata proclamata dal “califfo” pochi giorni dopo, il 13 novembre. Secondo le stime, i militanti della Provincia sono circa 1.000-1.500. Il gruppo ha rivendicato l’abbattimento dell’aereo russo avvenuto nel Sinai il 4 novembre 2015.

Algeria

Wilâyat al-Jazâ’ir (Algeria)
Il gruppo armato Jund al-Khilâfa (I soldati del califfato) si è staccato da al-Qaida nel Maghreb (Aqmi) e ha giurato fedeltà allo Stato Islamico il 10 settembre 2014. Khaled Abu Suleimane ha assunto la leadership del nuovo gruppo e in un video dichiarava rivolgendosi al “califfo”: “Nel Maghreb islamico ci sono uomini ai tuoi ordini”. La provincia d’Algeria è stata proclamata il 13 novembre 2014. I militanti della wilâya hanno rivendicato il rapimento e la decapitazione del francese Hervé Gourdel avvenuti a settembre 2014. L’organizzazione figura nella lista dei gruppi terroristici stilata dal Governo statunitense. 

Afghanistan e Pakistan

Wilâyat Khurâsân (Khorasan)
La Provincia del Khorasan, tra Afghanistan e Pakistan, è stata proclamata nel gennaio 2015. Nell’ottobre 2014, Hafiz Saeed Khan, un ex comandante del movimento Tehrik-e Taliban (TTP), giurava fedeltà al “califfo” in un video diffuso soltanto il 10 gennaio 2015 dal gruppo Khorasan Media, e che include la ripresa dell’esecuzione di un soldato pachistano. Il portavoce del gruppo è l’ex talebano pakistano Sheykh Maqbool, meglio noto con il nome di guerra Shahid Shahidullah

Russia

Wilâyat Qawqâz (Caucaso)
La Provincia del Caucaso è stata proclamata il 23 giugno 2015 (http://understandingwar.org/backgrounder/isis-declares-governorate-russia%E2%80%99s-north-caucasus-region) da Abu Monammed al-Adnani – portavoce dello Stato Islamico. L’annuncio è stato dato in seguito alla diffusione su Twitter di un messaggio audio in russo in cui i sostenitori di Isis nelle regioni del Daghestan, della Cecenia, dell’Inguscezia, e del KBK (Kabarda, Balkaria e Karachay) giuravano fedeltà ad al-Baghdadi. Tale annuncio ha di fatto posto l’Isis contro l’Emirato islamico del Caucaso (ICE), un affiliato di al-Qaida che dal 2007 opera nella regione montuosa della Russia sud-occidentale. Il leader della nuova provincia è Rustam Asilderov, uno degli ex capi dell’Emirato islamico del Caucaso. La Provincia del Caucaso ha rivendicato l’attacco a una base militare russa nel Dagestan meridionale, avvenuto il 2 settembre 2015. 

Nigeria

Wilâyat Gharb Ifrîqiyâ (Africa occidentale)
La Provincia dell’Africa occidentale (Iswap) è stata proclamata il 7 marzo 2015 dopo che, a febbraio Abubakr Shekau, leader di Boko Haram, aveva giurato fedeltà al “califfo”. Inizialmente, il gruppo ha continuato a utilizzare la sua denominazione ufficiale, Jama‘at Ahl al-Sunna li-d-da‘wa wa al-Jihad, più comunemente nota come Boko Haram, espressione che nella lingua locale Hausa significa “l’istruzione occidentale è proibita”. Secondo una stima di Amnesty International il gruppo è formato da circa 15.000 membri. 

Yemen

Wilâyat Yaman
La Provincia dello Yemen è stata proclamata il 13 novembre 2014. In Yemen lo Stato Islamico ha saputo sfruttare il vuoto di potere creatosi quando gli Houthi, sciiti zaiditi ribelli del Nord del Paese, hanno perso il controllo della capitale Sanaa alla fine del 2014, e il conflitto settario tra sunniti e sciiti. Diversamente dalle altre province, in questo caso al-Baghdadi non ha nominato ufficialmente un leader. Gli esperti l’hanno tuttavia identificato nella persona del saudita Abu Bilal al-Harbi. La Provincia è divisa in sei sotto-province, Sanaa, Ibb e Taiz, Lahij, Aden, Shabwa, Hadramawt e al-Bayda. 

Arabia Saudita

Wilâyat Najd (il Najd) e wilâyat Haramayn (le due Città sante)
La Provincia del Najd, nell’Arabia Saudita centrale, e la Provincia delle due Città sante, ovvero Mecca e Medina, sono state proclamate il 13 novembre 2014 quando i “Mujahidin della penisola araba” hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico e accusato di apostasia i governanti sauditi. I militanti della Provincia del Najd hanno rivendicato l’attentato alle moschee sciite di Damman, capoluogo della Provincia orientale di al-Sharqiyya, del 29 maggio 2015, e quello, di poco precedente, del villaggio di al-Qadeeh, vicino ad al-Qatif. Il gruppo ha inoltre rivendicato l’attentato del 26 giugno 2015 alla moschea sciita a Kuwait City.

A giugno 2014 il gruppo terroristico dello Stato Islamico ha proclamato la restaurazione del “califfato” nelle zone da esso conquistate tra Siria e Iraq. A differenza di altri gruppi terroristici infatti, i jihadisti del “califfo” ambiscono a creare uno Stato. Nel tentativo di realizzare le proprie ambizioni, lo Stato Islamico ha istituito un sistema amministrativo che prevede la suddivisione del territorio in province, in arabo wilâyat, ispirandosi all’antica divisione del Califfato ottomano (1517-1924) e, prima ancora, dal Califfato abbaside (750-1258). L’istituzione delle province ha un valore soprattutto propagandistico, non corrispondendo a un’effettiva amministrazione burocratica dei territori da parte dello Stato Islamico né tantomeno all’erogazione di servizi alla popolazione.

sabato 12 dicembre 2015

Chi è il “califfo” dello Stato Islamico

*Articolo pubblicato originariamente su Fondazione Oasis

Abu Bakr al-Baghdadi è lo sfuggente e invisibile capo dell’Isis. Ecco come la propaganda jihadista giustifica la sua legittimità di “comandante dei credenti” e la contro-propaganda musulmana la confuta


Abu Bakr al-Baghdadi a Mosul [Clicca per vedere le figure chiave dell'evoluzione di Isis]
Abu Bakr al-Baghdadi nella Grande moschea di Mosul

Era il 15 maggio 2010 quando il majlis al-shura (il consiglio consultivo) dello Stato Islamico nominava Abu Bakr al-Baghdadi nuovo “comandante dei credenti”. All’epoca lo Stato Islamico d’Iraq, tra alti e bassi, esisteva già da quattro anni: era stato proclamato il 15 ottobre 2006, anche se in Occidente molti si sono accorti della sua esistenza soltanto nel giugno 2014, in seguito alla presa della città irachena di Mosul. 

Ad aprile 2010, i precedenti leader dell’organizzazione, l’emiro Abu ‘Umar al-Baghdadi e il ministro della Guerra Abu Ayyub al-Masri1, erano stati uccisi in un raid americano a Tikrit, e lo Stato Islamico d’Iraq affrontava per la prima volta il problema della successione. Come i suoi predecessori, al momento della nomina Abu Bakr al-Baghdadi era sconosciuto ai più, anche agli stessi jihadisti iracheni. 
Il comunicato, diffuso online dal Markaz al-Fajr li-l-I‘lam, rendeva nota la nomina del “combattente Abu Bakr al-Baghdadi al-Husseini al-Qurayshi a comandante dei credenti dello Stato Islamico d’Iraq, e del combattente Abu ‘Abdallah Al-Hasani al-Qurayshi a primo ministro e suo vice”.

Poco tempo dopo la bay‘a, la dichiarazione di fedeltà al nuovo leader, il portavoce dello Stato Islamico Muhammad al-‘Adnani che, secondo l’intelligence statunitense sarebbe il regista degli attentati di Parigi del 13 novembrespiegava chi era quell’uomo misterioso.
Al-Baghdadi “è un Husayni della tribù dei Quraysh, discendente dalla stirpe pura degli Ahl al-Bayt [la famiglia del Profeta], sapiente, servitore di Dio e combattente. In lui ho visto la dottrina, la tenacia, l’audacia e l’ambizione di Abu Mus‘ab [al-Zarqawi], la mitezza, la giustizia, il giudizio e la modestia di Abu ‘Umar [al-Baghdadi], l’intelligenza, la perspicacia, la perseveranza e la pazienza di Abu Hamza [al-Masri]”.

Queste poche parole erano sufficienti ad accreditare l’uomo misterioso agli occhi dei mujahidin e ne legittimavano la successione in virtù delle sue nobili origini. Al-Baghdadi apparterrebbe al ramo alide della famiglia del Profeta dell’Islam, sarebbe in particolare un discendente di Husayn, il figlio minore di ‘Ali ibn Abu Talib, ultimo dei quattro califfi “ben guidati”, e della figlia del Profeta, Fatima.

Quando fu proclamato “comandante dei credenti” Ibrahim Awwad Ibrahim al-Badri, poi divenuto noto con il nome di guerra Abu Bakr al-Baghdadi, aveva soltanto 39 anni. Era nato nel 1971 a Samarra, un’antica città a nord di Baghdad, nel Medioevo sede per qualche decennio del califfato abbaside, da una famiglia modesta e profondamente religiosa. Il padre teneva lezioni di Corano in una moschea locale e il figlio, fin da bambino, era solito trascorrere molto tempo in preghiera. 

Tra baathismo e salafismo

Ibrahim al-Badri è cresciuto nel clima controverso dell’Iraq degli anni ’80 e ’90. Era il periodo in cui iniziava ad amplificarsi quella frattura confessionale che di lì a pochi anni avrebbe investito violentemente l’Iraq, gettandolo in una guerra civile tra la minoranza sunnita e la maggioranza sciita. 
Nel clima settario alimentato dalle politiche repressive di Saddam Hussein le famiglie irachene si trovavano spesso divise tra l’adesione al partito Baath che, seppur ostile all’attivismo religioso, raccoglieva un gran numero di adesioni tra chi era in cerca di un lavoro e di un ruolo nella società, e l’Islam a tendenza salafita. La famiglia di al-Baghdadi è esemplificativa di questa scissione: alcuni dei suoi membri finirono per aderire al partito e arruolarsi nell’esercito di Saddam, altri tra cui il giovane al-Baghdadi si orientarono invece verso i Fratelli musulmani o il salafismo jihadista. 

La guerra contro l’Iran negli anni ’80 segnò un’inversione di rotta nella politica e nella sensibilità religiosa di Saddam. Il rais, in cerca del sostegno della minoranza sunnita, liberò i salafiti che aveva fatto arrestare nel decennio precedente, e cercò di dare un’impronta islamica alle sue politiche per guadagnarsi il loro consenso. Non è un caso che proprio nel 1989 Saddam Hussein abbia fondato l’università per gli Studi islamici a lui dedicata e che abbia addirittura donato 28 litri del suo sangue da utilizzare come inchiostro per incidere un Corano che avrebbe dovuto essere conservato nella moschea “Madre di tutte le battaglie”, fatta costruire nel 1991. 

Il nuovo clima di propaganda religiosa non poteva che suscitare l’entusiasmo del giovane al-Baghdadi che, dopo essersi laureato in studi coranici all’università di Baghdad nel 1996, si iscrisse a un master in recitazione del Corano all’università di Studi islamici di Saddam Hussein, concluso nel 1999. Ma la carriera universitaria di al-Baghdadi non finì lì, perché nel 2007, tra un arresto e le attività militanti, riuscì a conseguire anche il dottorato.


Maradona a Camp Bucca

“Se non ci fosse stata una prigione americana in Iraq, ora non esisterebbe lo Stato Islamico. Bucca era una fabbrica. Ci ha creati tutti. Ha costruito la nostra ideologia”, confessò al Guardian un ex detenuto.  

Nel febbraio 2004, al-Baghdadi fu arrestato a Falluja mentre era in visita da un amico, uno dei “most wanted men” sulla lista dei ricercati dell’intelligence statunitense. Restò nel centro di detenzione di Camp Bucca, nel sud dell’Iraq, per dieci mesi (diversamente dalla versione dei fatti più diffusa, secondo la quale sarebbe stato rilasciato soltanto nel 2009), dove fu schedato come “detenuto civile”, segno che le sue tendenze salafite-jihadiste non erano ancora note. Nel periodo di detenzione al-Baghdadi si dedicò allo studio, alle public relation, e al calcio – sport per il quale era particolarmente dotato, tanto da essere soprannominato “Maradona”. Quanto alle sessioni di public relation, gli consentirono di creare quella rete di persone che qualche anno dopo sarebbero andate a ingrossare le fila dello Stato Islamico. Una volta fuori da Camp Bucca fu facile riprendere i contatti con gli ex compagni di prigione: i detenuti si erano scritti i rispettivi numeri di telefono sugli elastici della biancheria
Detenuti a Camp Bucca. Credit: Flickr, Wisconsin National Guard

A Damasco

Mentre al-Baghdadi era a Camp Bucca, al-Zarqawi dava vita al ramo iracheno di al-Qaida, chiamandolo al-Qaida in Iraq (AQI). Il salafita giordano voleva scatenare una guerra civile su base settaria e trarre vantaggio dai disordini per creare uno Stato islamico. 
Una volta rilasciato, al-Baghdadi prese contatto con i capi della filiale locale di al-Qaida, che lo convinsero ad andare a Damasco, in Siria. Un militante con laurea, master e dottorato in scienze coraniche era una rarità nella galassia salafita e non poteva rischiare di essere ucciso. All’epoca la Siria era tranquilla e il presidente Bashar al-Assad favoriva il passaggio da e per l’Iraq di foreign fighters e le loro attività.  

Nel giugno 2006, Zarqawi era ucciso in un raid dell’aviazione statunitense. Il suo progetto di costruire uno Stato islamico fu continuato dal successore Abu Ayyub al-Masri, che il 15 ottobre dello stesso anno dissolse AQI e proclamò lo Stato Islamico d’Iraq. Al-Masri assunse la carica di ministro della Guerra e Abu ‘Umar, un iracheno, fu nominato emiro. A questo punto, entra in scena anche al-Baghdadi: a lui furono affidati gli Affari religiosi dello Stato Islamico. Poco tempo dopo fu nominato supervisore del Comitato della sharî‘a e membro del Comitato consultivo, incaricato di assistere l’emiro Abu ‘Umar. La scalata al potere continua, rapida: da membro del Comitato di coordinamento dello Stato Islamico – un board di tre uomini incaricati di supervisionare le attività dei comandanti dello Stato Islamico – a “comandante dei credenti” a maggio 2010. Intanto, nel 2013, lo Stato Islamico d’Iraq estende la sua azione in Siria, diventando Stato Islamico d’Iraq e Siria (ISIS, in arabo Daesh). Questo passaggio provoca la rottura definitiva dei rapporti con al-Qaida, che vorrebbe limitarne la sfera d’influenza all’Iraq. Quando il 29 giugno del 2014 lo Stato Islamico annuncia la restaurazione del “califfato” universale, Abu Bakr al-Baghdadi è nominato “califfo”. Alcuni giorni dopo, il 4 luglio, fa la sua prima e finora ultima apparizione pubblica nella Grande moschea di Mosul dove tiene il sermone della preghiera del venerdì. Un video lo ritrae con il turbante e l’abito nero – una mise tutt’altro che casuale, indossata già dai califfi abbasidi – e un Rolex al polso. 

Perché per i jihadisti il “califfo” sarebbe legittimo

Per la prima volta dopo l’abolizione del califfato ottomano ad opera della Turchia repubblicana e kemalista, nel mondo islamico qualcuno osava attribuirsi l’“imamato supremo”. 

E mentre i seguaci dello Stato Islamico seminano il terrore in Siria, in Iraq e in Europa, la propaganda jihadista diffonde sul web documenti che spiegano le ragioni per cui al-Baghdadi sarebbe il califfo legittimo della umma universale.  

Il califfo – ricorda uno di questi testi – soddisfa tutte le condizioni previste dai giuristi dell’epoca classica per l’imamato: “Per essere idoneo l’imam deve soddisfare dieci condizioni: dev’essere maschio, libero, adulto, dotato di ragione, musulmano, giusto, coraggioso, discendente dei Quraysh, sapiente, capace di assolvere ai compiti affidatigli, ovvero la politica e gli interessi della umma. Nel momento in cui si giura fedeltà a colui che possiede queste qualità – e non ci sono altri imam – allora si ritengono vigenti il patto di fedeltà e l’imamato. A questo punto la sottomissione è obbligatoria se non ci si vuole ribellare a Dio e al suo Inviato”.

Al-Baghdadi, prosegue il testo, riunirebbe in sé le principali caratteristiche del buon governante: “una conoscenza religiosa (‘ilm) e una genealogia che risalgono al Profeta”. La conoscenza al-Baghdadi l’avrebbe acquisita nel percorso di studi e gli sarebbe stata concessa da Dio che, secondo un detto del Profeta, “istruisce nella religione colui a cui vuole bene”. Il califfo quindi sarebbe un eletto di Dio e avrebbe “purificato le zone dell’Iraq e del Levante dall’abominio safavide [dinastia musulmana sciita che regnò in Persia nei sec. XVI-XVIII] ed alawita e dall’apostasia, estendendo su di esse l’Islam”. 

Il documento spiega inoltre, riprendendo le parole di al-Nawawi (m. 1278), giurisperito del XIII secolo, che, per essere valido, l’atto di fedeltà (bay‘a) non deve essere “necessariamente sottoscritto all’unanimità da tutti gli uomini o dalla Gente del patto (ahl al-hall wa al-‘aqd). È sufficiente che a giurare fedeltà siano gli ulema, i capi e i notabili che hanno la possibilità di riunirsi”. 

Concluso il patto che lega il califfo alla umma, i musulmani sono invitati a non trasgredire le regole fissate dal califfo e a rendergli omaggio in virtù della sua discendenza nobile. A questo proposito è citato un passo tratto dal commentario coranico di Ibn Kathir (m. 1373), noto esegeta vissuto nel XIV secolo: “Non negate le disposizioni degli Ahl al-bayt e l’ordine di agire bene nei loro confronti, portare loro rispetto e onorateli. Essi sono una stirpe pura, la più nobile delle famiglie che esista sulla terra, gloriosa e nobile nelle origini”.  
Infine il califfo avrebbe il diritto di imporre la propria autorità sui luoghi conquistati con la forza, anche senza il consenso della popolazione locale. Perché “la conquista rappresenta il momento più alto dell’Islam […] e, come disse Ibn ‘Abd al-Wahhab – fondatore del wahhabismo in Arabia Saudita –, ‘chi conquista un Paese ha autorità su tutte le cose. Se non fosse così il mondo terreno non sarebbe giusto perché da molto tempo gli uomini, prima dell’imam Ahmad [Ibn Hanbal] e fino ai giorni nostri, non si trovano d’accordo su un imam’”.  

Perché il “califfo” non è legittimo

Questa presunta legittimità è in realtà contestata da molti ulema, sia da parte dell’Islam istituzionale sia da parte salafita. 
Il 19 settembre 2014 centoventisei rappresentanti dell’Islam istituzionale sottoscrivevano una lettera aperta di condanna ad al-Baghdadi in cui confutavano in ventiquattro punti le interpretazioni del Corano e della Sunna messe in campo dal “califfo” per giustificare la proclamazione del califfato e le atrocità commesse nei confronti della Gente del Libro e dei musulmani considerati cattivi fedeli. In questi ventiquattro punti i sottoscrittori sancivano il divieto nell’Islam di uccidere gli innocenti, lanciare il jihad offensivo, dichiarare infedeli le persone, maltrattare la Gente del Libro tra cui rientrano anche gli yazidi, torturare le persone, sfigurare i morti, distruggere le tombe e i mausolei dei profeti, e soprattutto re-istituire il califfato senza il consenso di tutti i musulmani.  

Da parte salafita si può segnalare la diffusione, nell’agosto del 2015, del libro intitolato Hanno detto sullo Stato di al-Baghdadi, che raccoglie le confutazioni dei leader e degli ideologi di diversi movimenti salafiti jihadisti. Tra questi, persino Ayman al-Zawahiri, subentrato alla leadership di al-Qaida nel 2011 in seguito alla morte di Osama bin Laden, sconfessa lo Stato Islamico e si proclama “innocente ed estraneo al suo progetto e ai suoi metodi”. Al-Maqdisi, uno dei più importanti ideologi del salafismo jihadista, dichiara che “lo Stato Islamico dell’Iraq e del Levante ha deviato dalla verità, ha imboccato la strada dell’eccesso, ha versato sangue di innocenti, ha confiscato il loro denaro, le loro ricchezze e i loro territori”. 
È certamente singolare che la battaglia contro la legittimità del “califfo” e del “califfato” si combatta anche all’interno della galassia fondamentalista, i cui protagonisti fanno a gara nel lanciare anatemi contro il più estremista del momento. Tuttavia le critiche e le prese di posizione non impediscono però ad al-Baghdadi di continuare a reclutare militanti in tutto il mondo. 

1Si tratta di Abu Ayyub al-Masri, noto anche come Abi Hamza al-Muhajir al-Masri. Di origini egiziane, al-Masri succede a Zarqawi quando questi viene ucciso. Muore in uno scontro a fuoco con i soldati statunitensi e iracheni il 18 aprile 2010.

Per saperne di più:

William McCants, The Believer, Brookings Institute, disponibile su http://www.brookings.edu/research/essays/2015/thebeliever
William McCants, The Isis Apocalypse. The History, Strategy, and Doomsday Vision of the Islamic State, St. Martin’s Press, New York 2015.
Open Letter To Dr. Ibrahim Awwad Al-Badri, alias ‘Abu Bakr Al-Baghdadi’, and to the Fighters and Followers of the Self-declared ‘Islamic State’, disponibile su http://www.lettertobaghdadi.com/pdf/Booklet-Combined.pdf
Sîra dhâtiyya li-khalîfat al-muslîmîn / Abû Bakr al-Baghdâdî, disponibile su http://justpaste.it/seraztya.
Qâlû ‘an dawlat al-Baghdâdî, Katâ’ib rad‘ al-khawârij, 2015. 


giovedì 10 dicembre 2015

L’estremismo è un accidente storico nella cultura araba? Lo scontro tra le idee di Taha Hussein e Sayyid Qutb

Segue la traduzione integrale di un articolo di Ma’mun Fandy da al-Sharq al-Awsat del 29 novembre 2015, in cui l'autore riflette sulla natura dell'estremismo nelle società islamiche e sulle responsabilità degli Stati nel suo rafforzamento

Ogni volta che assistiamo a un fatto spregevole come i fatti dell’11 settembre 2001, i fatti di Londra del 7 luglio 2005 o i fatti di Parigi, o le teste mozzate sugli schermi televisivi ci domandiamo (a noi stessi prima che agli altri) se la nostra cultura è estremista per natura o se l’estremismo è un accidente storico nella cultura araba di cui è possibile cambiare la traiettoria. Se fosse così, quali sarebbero quei “segnali sulla via”, per riprendere l’espressione di Sayyid Qutb, in cui abbiamo visto traccia dell’estremismo o di una strage? L’estremismo è sintomo di una malattia o effetto di una causa? Il fiume dell’estremismo è alimentato da idee che hanno oltrepassato gli argini riversandosi su di noi. È possibile costruire una diga come la grande diga di Assuan per arginare l’estremismo, oppure l’estremismo è un segno del collasso del sistema politico dello Stato?

Sayyid Qutb (n. 1906, m. 1966)
È una grande domanda che dipende dalla specificità di ciascun Stato del mondo arabo, e i segnali devono essere definiti caso per caso. Ciononostante esistono delle generalità evidenti, tali non perché riguardino tutti i Paesi, ma perché rivelano delle comunanze. Nel caso dell’estremismo esiste una linea esplicativa come la teoria dell’evoluzione di Darwin? E se, analogamente all’essere umano che, da essere abbietto qual era, si è evoluto e ha attraversato le fasi dell’evoluzione fino a diventare uomo o raggiungere la posizione eretta, il germe dell’estremismo, generatosi e sviluppatosi in ambienti diversi, ci avesse condotti all’estremismo globale e totale in cui ci troviamo ora? O forse ricorda la teoria del paleontologo ed evoluzionista Stephen Jay Gould, secondo la quale a un’evoluzione segue un disastro che mette fine a tutte le cose, a cui segue un nuovo inizio? Ciò significherebbe che non vi è alcuna relazione tra il mondo dei dinosauri e il mondo delle altre specie animali, e ci consentirebbe di affermare che non vi è alcuna relazione tra un testo estremista antico e una mente estremista moderna.

Prendiamo il caso dell’Egitto degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Sicuramente molti di noi ricorderanno che, nelle loro famiglie, il padre e la madre erano molto più aperti al mondo rispetto a quanto lo siano oggi i nostri fratelli e le nostre sorelle, e che la corrente estremista fino agli anni Sessanta era una corrente minoritaria nella società. Molti ricorderanno anche che il libro di Taha Hussein “Il futuro della cultura in Egitto”, che invitava gli egiziani a educare i loro figli e le loro figlie come gli europei educavano i loro, era molto più celebre del libro di Sayyid Qutb “Le pietre miliari”, che esortava a costruire una società islamica secondo quello che Sayyid Qutb immaginava essere l’Islam e il modus vivendi dei primi musulmani. Mentre Taha Hussein invitava a imitare il mondo europeo, con le sue scuole e le sue università del tempo, la mente di Sayyid Qutb fuggiva in un passato immaginato e tramandato attraverso migliaia di intermediari. In verità possiamo dire che questi due libri rappresentano metaforicamente la battaglia post anni Sessanta tra lo Stato e la società sullo spirito dell’Egitto.

Da che parte si sono schierati lo Stato e la società egiziani? Con Taha Hussein o Sayyid Qutb? Quando le battaglie di Taha Hussein contro la corrente oscurantista divamparono, il sultano Hussein Kamal si schierò contro la decisione degli estremisti che in Parlamento volevano annullare la missione di Taha Hussein in Francia nel 1915. Qualche anno dopo si sarebbe formato il movimento dei Fratelli musulmani a Isma‘iliyya. Il sostegno che essi non trovarono al centro – al Cairo – lo trovarono gradualmente nelle periferie. Era il 1928.

La nomina di Taha Hussein a ministro dell’Istruzione rappresentò simbolicamente la vittoria della corrente illuminista sulla corrente oscurantista. Basta fare un confronto tra un ministro dell’Istruzione responsabile dell’educazione dei giovani come Taha Hussein, e i ministri dell’Istruzione che si susseguirono in Egitto e che non lasciarono tracce, se non l’introduzione delle battaglie dello Stato e dei loro problemi personali nei programmi d’insegnamento, ciò che ha condotto al disastro che vediamo oggi.
Naturalmente sono molte le ragioni per cui lo Stato si è schierato con Sayyid Qutb a scapito di Taha Hussein, che auspicava l’illuminismo, e che gli ottusi hanno stigmatizzato come corrente occidentalizzante. Questo stigma resiste ancora oggi presso molte correnti della delinquenza politica che guidano la società attraverso l’ignoranza e l’oscurantismo, col pretesto di preservare l’identità.

Taha Hussein (n. 1889, m. 1973)

Gradualmente, in un mondo che manca di legittimità politica e di reciproca intesa tra il governante e il governato, il governante ha pensato che la strada per raggiungere un’intesa con la corrente estremista fosse la divisione del lavoro: lo Stato è del governante, e la società con le sue scuole e università è degli estremisti. Questo era evidente all’epoca di Hosni Mubarak e più ancora all’epoca di Anwar al-Sadat, quando tutto ciò ebbe inizio.

Le scuole e le università furono lasciate in mano agli estremisti, quando negli anni Settanta del secolo scorso ci si beffava della legge e nessuno protestava. Si pensi a quello che i giovani della Jama‘at Islamiyya facevano agli studenti. Tutto ciò accadeva sotto gli occhi della polizia, che non interveniva per proteggere i cittadini dalla violenza di altri cittadini. La delinquenza e la violenza si sono fatti scudo della religione. Questo ci induce a pensare che lo Stato e la politica abbiano fallito, ciò che ha favorito l’estremismo. L’estremismo è sintomo di una malattia, ovvero del collasso delle istituzioni statali.

Quando viene meno la legittimità, lo Stato ricorre alle bande di teppisti tra cui gli islamisti ma non solo. Quando l’agenda di questi ultimi è diversa dall’agenda dei governanti, i governanti si rivolgono ad altri teppisti che li proteggono dalla violenza dei teppisti precedenti, come accade nei romanzi di Naguib Mahfuz. Così gli Stati passano dal sostenere un gruppo di delinquenti facendosi scudo della religione, a sostenere la delinquenza di altri, che si ammantano di un falso patriottismo e rappresentano la peggior scempiaggine della società.

Agli islamisti che si sono impossessati delle scuole, delle università e delle televisioni, si è sostituita una corrente ignorante fatta di plebaglia e ignoranti. Lo stesso girone infernale chiuso, in cui non vi è posto per Taha Husseyn. […]
Naturalmente uno Stato in declino deve avere una stampella alla quale appoggiarsi.
L’estremismo è una condizione che creiamo noi, sono prese di posizione politiche degli Stati, ma la miscela di vergogna e paura ci impedisce di proclamare la verità.

lunedì 30 novembre 2015

Arabia Saudita: "un Daesh riuscito"?

La sintesi di una conversazione con Stephane Lacroix, professore di Scienze politiche ed esperto di salafismo, su ciò che accomuna e ciò che distingue il salafismo jihadista di Daesh dal wahhabismo saudita. Il video-intervista è stato realizzato da Mediapart pochi giorni dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre. 



Secondo il giornalista algerino Kamel Daoud, Daesh ha una madre, l’invasione americana dell’Iraq nel 2003, e un padre, l’Arabia Saudita.
Ma Stephane Lacroix non è d’accordo. Sebbene Daesh e l’Arabia Saudita condividano molti aspetti ideologici, teologici e giuridici, e l’approccio letteralista alle Scritture, per diverse ragioni Daesh non può essere considerato un prodotto saudita.

In primo luogo, il salafismo saudita ha dato vita a un sistema politico costruito su un equilibrio tra religioso e politico. Questo sistema bicefalo fa sì che “l’estremismo” religioso sia in un certo modo limitato dal patto che lo lega alla parte politica. In Arabia Saudita sono presenti due sfere, i predicatori e i principi. I principi attuano politiche pragmatiche, fanno la real-politik lasciandosi guidare dalla ragione di Stato. Questo i sauditi l’hanno dimostrato in più di un’occasione nelle loro decisioni di politica estera. Si sono alleati con gli Stati Uniti e in alcuni momenti della storia addirittura con i comunisti. Negli anni ’60 durante la guerra civile in Yemen hanno sostenuto gli zaiditi, sciiti, perché erano ostili all’influenza dei nasseristi, nonostante l’ideologia wahhabita sia anti-sciita. Nel ’94 sempre in Yemen hanno sostenuto i comunisti.

L’Arabia Saudita, contrariamente allo Stato Islamico, si definisce Stato, non califfato, e i principi non si dicono califfi.

Il salafismo saudita è una visione societaria che si ferma là dove inizia la parte politica. I salafiti agiscono sulla società dal basso. Essi diffondono il loro messaggio ultraconservatore attraverso la predicazione, vogliono costituire quella che secondo loro è la società islamica ideale ma non hanno pretese politiche. Il jihadismo invece è l’esatto contrario, cerca di prendere il potere con la violenza.

Nel Novecento, in Arabia Saudita, il politico ha saputo addomesticare il religioso. Ciò è evidente, per esempio, nella visione che i wahhabiti hanno maturato degli sciiti. Se nell’Ottocento li definivano apostati, nel Novecento hanno iniziato a considerarli dei cattivi musulmani, ma pur sempre musulmani.

I sauditi vedono nella Stato Islamico una minaccia ed è esagerato affermare che l’abbiano sostenuto finanziariamente. Lo Stato Islamico funziona come un qualunque Stato: ha introdotto le imposte e controlla i pozzi petroliferi, perciò per esistere non ha bisogno di finanziamenti esterni.

Il salafismo non spiega le origini del jihadismo, cioè dell’azione violenta ispirata da un programma totalitario volto a costituire uno Stato islamico duro e puro. All’origine del jihadismo c’è Sayyid Qutb, che non ha subito l’influenza del salafismo saudita. Il messaggio jihadista ha iniziato a essere ridefinito e riscritto a partire da nozioni salafite solamente negli anni ’90. Il jihadismo non ha bisogno del salafismo per esistere.

Il salafismo e il jihadismo pongono entrambi dei problemi, ma non gli stessi. Per affrontarli occorre saperli riconoscere. Fare confusione tra i due e offrire soluzioni sbagliate può potenzialmente condurre alla radicalizzazione.

In Arabia Saudita in futuro potrebbe emergere uno Stato diverso da quello che conosciamo. Diversi movimenti infatti contestano l’ordine religioso. L’opposizione di destra lo ritiene troppo morbido e auspica un modello duro e puro (che si avvicina a quello di Daesh), mentre l’opposizione di sinistra vorrebbe reinventare il salafismo. Si tratta, in questo secondo caso, di uomini di religione che hanno studiato nelle università saudite, padroneggiano alla perfezione le fonti e le nozioni salafite e, a partire da queste, cercano di ridefinire il ruolo del religioso e del politico. Essi hanno costituito un movimento che chiede l’istituzione di una monarchia costituzionale con un parlamento eletto, e la giustificano citando passaggi tratti dai testi di Ibn Taymiyya, considerato l’ispiratore del salafismo moderno.

giovedì 26 novembre 2015

Che cosa dicono i giornali arabi del terrorismo islamico

Un quotidiano iracheno riflette sulle responsabilità delle società islamiche nel rafforzamento degli estremismi, le dichiarazioni dello sheykh di al-Azhar suscitano reazioni contrastanti

Al-Madâ, quotidiano iracheno di politica, Questo è il nostro terrorismo, noi ne siamo responsabili!, di ‘Adnân Husayn

Lezione in una scuola coranica
“Non possiamo sottrarci alla nostra responsabilità di fronte al terrorismo, a nulla ci servirà cercare delle scuse. Dobbiamo innanzitutto riconoscere la nostra responsabilità e domandare perdono a noi stessi e agli altri per poi correggere la nostra condotta. Non è possibile correggere la nostra condotta senza ripensare completamente e modificare radicalmente i nostri programmi d’insegnamento dalla scuola elementare all'università. Non ci sarà alcun perdono se non rivediamo il modo in cui la religione è presentata nei programmi d’insegnamento nelle università, nelle moschee e nelle husseiniyya [luoghi di culto usati per le cerimonie sciite, ndr], sui canali televisivi e alle stazioni radio. La religione come viene presentata non è una religione di tolleranza, pace, armonia, accordo e reciproca compassione. La religione come viene presentata nei nostri programmi, nelle nostre università, nelle nostre moschee e nelle nostre husseiniyya, alla radio e alla televisione, è una religione barbara che esorta al decapitare, spargere sangue, rubare, usurpare, schiavizzare e violentare. L'altra religione, che alcuni di noi dicono essere la vera religione, non è presente nelle nostre vite. Nella migliore delle ipotesi, la sua voce è tanto fievole da non essere udita da nessuno, soprattutto dalla nuova generazione, esclusa ed emarginata, la cui umanità è compromessa dalla povertà, dalla privazione, dall’assoggettamento, dall’insegnamento e dalle fatwa deliranti”.

Al-Akhbâr, quotidiano libanese, Lo Shaykh di al-Azhar attacca ancora gli sciiti…e i cristiani?!, di Mustafa Shihata

Moschea al-Azhar, Cairo
“Sembrerebbe che lo shaykh di al-Azhar Ahmad al-Tayyib sia indeciso tra uno Stato che auspica il rinnovamento del discorso religioso e un’istituzione salafita che fa l’esatto opposto, visto che gli shaykh e i professori della sua università attaccano tutto ciò che diverge dalla loro dottrina. [..]Quest’ambivalenza è emersa durante la conferenza dal titolo ‘Uno sguardo sull’invito a rinnovare il discorso religioso e smantellare l’ideologia estremista’, che si è tenuta nella città di Luxor, a sud del Cairo, nei giorni scorsi. […].Nel discorso di apertura al-Tayyib ha detto che i musulmani, ‘ispirandosi al nobile Corano, hanno prodotto una grande civiltà di cui hanno beneficiato i popoli orientali e occidentali, a differenza della civiltà occidentale, che è stata colta dalla fragilità e dalle divisioni quando nel Medio Evo ha issato la bandiera della religione, mentre quando si è ribellata alla religione e le ha voltato le spalle si è sviluppata ed è fiorita.’ […] Ha inoltre aggiunto che ‘è storicamente dimostrato che i musulmani hanno prodotto delle eresie (ibda‘û) quando hanno voltato le spalle al Corano e alla Sunna, e il loro regresso è imputabile all’allontanamento dalle fonti di forza, insite nella religione islamica”.

Al-Masrî al-Yaum, quotidiano egiziano liberale, Lo shaykh di al-Azhar: inviare le delegazioni nel mondo per far conoscere il vero Islam, di Redazione

Ahmad al-Tayyib, shaykh di al-Azhar
Lo Shaykh di al-Azhar Ahmad Al-Tayyib ha dichiarato che invierà “alcune delegazioni di al-Azhar nel mondo per insegnare il vero Islam e neutralizzare il pensiero deviante […]”. Ha inoltre aggiunto che “il terrorismo è una malattia del pensiero e dello spirito, costantemente alla ricerca di giustificazioni nei passaggi oscuri dei testi religiosi. Ha specificato inoltre che le cause del terrorismo non sono imputabili esclusivamente alla deviazione nelle religioni. Spesso infatti il terrorismo esce dal mantello delle dottrine sociali, economiche e perfino politiche. Sono migliaia se non addirittura milioni le vittime dei conflitti e delle guerre fra quelle dottrine e filosofie materialiste, che nulla hanno a che vedere con la religione”.

Al-Hayât, quotidiano panarabo con sede a Londra, Reazioni arabe al terrorismo, di Muhammad Haddad


Sala da spettacolo Bataclan, Parigi
“C'è qualcosa di innaturale nel rapporto che alcuni arabi hanno con il terrorismo e nelle loro reazioni agli attacchi terroristici. Non intendo qui le posizioni ufficiali e quelle dei giornali noti, ma le posizioni spontanee espresse sui social network, che sono anche le posizioni più credibili ed esprimono l’opinione delle società. […] I cittadini francesi che sono stati uccisi o feriti il 13 novembre avevano forse qualche responsabile in ciò che sta accadendo in Siria o avevano forse qualche rapporto con Bashar al-Assad o con Isis? L’esercito francese è lì per sostenere una delle due parti che stanno uccidendo il popolo siriano oppure è lì per cercare di scongiurare il peggio? […] Se l’Occidente non interviene è accusato di essere insensibile alla tragedia dei popoli arabi, e se interviene si dice che il terrorismo è la giusta pena per l’intromissione da parte occidentale nelle questioni arabe. Non siamo forse noi arabi a non sapere che cosa vogliamo?”