martedì 27 dicembre 2016

Quei terroristi che ignorano la tradizione islamica

*Articolo pubblicato originariamente su www.fondazioneoasis.org

Giordania, Berlino, Ankara e Zurigo: gli attentatori agiscono in nome di una religione che non conoscono

Berlino, Ankara, Zurigo e al-Karak, in Giordania. Quattro attentati, quattro obbiettivi diversi e altrettante diverse modalità di azione, ma un solo punto di convergenza: uccidere in nome dell’Islam. Si tratta tuttavia di una interpretazione distorta della religione islamica, come ha spiegato a Oasis Roman Caillet, esperto francese di salafismo, che in passato ha preso posizione a favore di istanze jihadiste per poi dissociarsene pubblicamente, non senza creare molte controversie in patria. Caillet cura il blog Jihadologie sul sito del quotidiano francese Libération.

Mevlüt Mert Altıntaş, autore dell'attentato all'ambasciatore russo ad Ankara

Nel video diffuso dai mass media dell’attentato all’ambasciatore russo Andrej Karlov, ucciso ad Ankara il 19 dicembre in un attacco non ancora rivendicato, si sente il giovane attentatore declamare in arabo un detto del profeta dell’Islam: Noi siamo coloro che hanno giurato fedeltà a Muhammad per il jihad [nahnu alladhīna bāya‘ū Muhammad ‘alā al-jihād]”. Si tratta qui di un hadīth collegato al versetto coranico che recita “O profeta, incita alla battaglia i credenti” (8,66) e contenuto nella raccolta canonica di al-Bukhārī. “Nel corso della storia – spiega Romain Caillet – questo detto è stato molto citato. Oggi è menzionato un po’ da tutti, non soltanto dai jihadisti, ma anche dai Fratelli musulmani e da Hamas”. Come del resto molti altri detti del Profeta dell’Islam, anche questo hadīth è stato più volte riproposto in diversi nashīd, gli inni di battaglia dei jihadisti, al punto che, ricorda Caillet, la maggior parte dei militanti lo conosce soltanto attraverso di essi e ignora che si tratta in realtà di un hadīth. Questa diffusa difficoltà a risalire alle origini delle espressioni utilizzate nelle rivendicazioni degli attentati o nei video testimonia già da sé una conoscenza superficiale della religione in nome della quale i jihadisti agiscono.

L’attentato all’ambasciatore russo è anche prova di interpretazioni estemporanee e contrarie alla Tradizione e di un uso distorto della legge islamica. “Il diritto islamico – spiega Romain Caillet – vieta l’uccisione di ambasciatori e messaggeri che si trovino in terra d’Islam. È un concetto nato in epoca medievale. Il messaggero giungeva nelle terre islamiche in sella al suo cavallo e recava un messaggio alle autorità musulmane. Che il suo sangue non fosse lecito era espresso a chiare lettere anche nei testi fondamentalisti”.

Nonostante questo, l’attentato all’ambasciatore russo – dice Caillet – ha suscitato in seno alla galassia salafita reazioni diverse e contrarie. Se i salafiti quietisti hanno condannato l’assassinio in nome della norma giuridica che vieta di uccidere gli ambasciatori, i jihadisti qaedisti hanno esultato considerando lecita questa pratica perché non ritengono la Turchia “terra d’Islam” e il suo presidente, Recep Tayyip Erdogan, un’autorità musulmana. Secondo alcuni di loro, se l’ambasciatore si fosse trovato nello Stato Islamico non avrebbe potuto essere ucciso, ma siccome si trovava in un Paese retto da un regime apostata, ucciderlo è stato lecito”. “Tra questi ultimi, un saudita ha pubblicato un video annunciando che avrebbe fatto la ‘umra, il piccolo pellegrinaggio alla Mecca, per l’anima dell’eroe che ha ucciso l’ambasciatore” – racconta Caillet.

martedì 19 luglio 2016

Perché il golpe in Turchia è fallito

[Voci dal mondo arabo]

Che cosa scrivono i giornali arabi del colpo di Stato fallito in Turchia

Turchia: perché il golpe del 2016 è fallito?

Al-Safir, 18 luglio 2016. Di Mustafa al-Libad

[…] Il quinto colpo di Stato in Turchia è fallito contrariamente ai quattro golpe precedenti (1960,1971,1980 e 1997). [Le ragioni] di questo fallimento risiedono nel fatto che non si sono verificate le condizioni necessarie alla buona riuscita. […] Dopo il fallimento del golpe, come d’abitudine, nella nostra zona è andata diffondendosi la “teoria del complotto”. In sostanza, lo stesso Erdoğan avrebbe ideato il colpo di Stato per liquidare gli avversari. Questa teoria è improbabile. Quella turca infatti è una società complessa a cui mal si adatta una visione così semplicistica delle cose, oltre al fatto che Erdoğan è nella lista dei perdenti nonostante il golpe sia fallito. Fatti salvi il tempo e il luogo, il fallito golpe turco del 2016 può essere paragonato al golpe russo, anch’esso fallito, del 1991. In Russia Gorbaciov non ha avuto alcun vantaggio nonostante il fallimento del colpo di Stato. Boris Eltsin ne ha tratto vantaggio, e l’Unione Sovietica si è disintegrata.

Gli otto requisiti mancanti

[…] Nel recente colpo di stato è mancata l’unità nelle istituzioni militari. Probabilmente, la notizia precoce del colpo di stato e il sequestro del capo di Stato maggiore Hulusi Acar erano indizi evidenti del contrasto tra i golpisti e la leadership dell’esercito. Vale la pena ricordare che la carica di ministro della difesa in Turchia, attualmente affidata al generale Fikri Işık è una carica politica, mentre la carica militare più altra rimane il capo di Stato maggiore dell’esercito turco. […]

Il secondo requisito assente è la presenza di figure militari di primo piano come leader del golpe, come avvenne con la nomina del generale Cemal Gürsel nel 1960, con il Capo di Stato Maggiore generale Mamdou Tagmac nel 1971, con il Capo di Stato maggiore generale Kenan Evren nel 1980, e con una serie di alti ufficiali turchi nel 1997 primi fra i quali i generali İsmail Hakkı Karadayı, Çevik Bir e Çetin Doğan. Nel golpe recente sono emersi i nomi dell’ex Capo di Stato Maggiore dell’Aeronautica Akın Öztürk, del colonnello Muharram Kusa consigliere del Capo di Stato Maggiore, e quello di Öztürk Hakan Karakuş pilota di grado medio. […] Il confronto tra i nomi e i gradi di questi ultimi e quelli degli alti ufficiali dei golpe riusciti è un prova chiara della mancanza di questo secondo requisito. 

Il terzo requisito che è mancato nel recente colpo di stato è il sostegno popolare. I quattro golpe riusciti in Turchia si erano infatti distinti per l’adesione dei gruppi e dei partiti politici in un contesto di ampia polarizzazione politica. Per quanto nella Turchia contemporanea vi sia una polarizzazione politica importante il rifiuto, fin dall’inizio, del colpo di stato da parte dei tre partiti di opposizione (il “Partito popolare repubblicano” laico, il “Partito democratico del popolo” curdo e il “Partito del movimento nazionalista” di destra) ha contribuito notevolmente a delegittimarlo. 

Il quarto requisito assente è il controllo da parte dei golpisti del governo, del parlamento e dei simboli del governo eletto. […]

La quinta condizione che non si è verificata nel recente colpo di stato è il controllo da parte dei golpisti dei mezzi di comunicazione. Il “primo annuncio” del golpe è stato dato da una delle presentatrici del canale TRT, lo stesso che poi ha annunciato il fallimento del golpe dopo che i golpisti sono stati fatti evacuare dalla sede della TV. 

La sesta condizione per il successo di un golpe in Turchia è l’identificazione dei golpisti nell’ideologia kemalista laica, che vede nell’esercito il protettore della Repubblica. Ciò è evidente nel discorso che i golpisti utilizzano per influenzare l’opinione pubblica turca. Rispetto alla “prima dichiarazione” dei quattro golpe riusciti, la “prima dichiarazione” del colpo di stato fallito era priva di quel contenuto ideologico, nonostante la ripresa di alcune frasi in stile Atatürk come “pace all’interno e all’esterno” e “difesa della laicità” […]

La settima condizione che consente la buona riuscita di un golpe è un coordinamento preventivo tra i golpisti e i rami "profondi dello Stato" ovvero la polizia, la magistratura e i media, ciò che è mancato nell’ultimo golpe. […]

Infine, a fare la differenza in questo ultimo golpe rispetto ai precedenti è stato lo scarso numero di soldati che hanno preso parte al colpo di Stato […].

Vignetta di al-Quds al-Arabi, 16 luglio 2016




Ha vinto Erdogan?

Al-Masri al-Youm, 18 luglio 2016. Di Amr al-Shubaki

[…] Nonostante la crudeltà di alcune scene turche nel giorno del colpo di stato, la domanda più importante, che esula dalle teorie sciocche secondo le quali Erdoğan avrebbe organizzato un colpo di stato per sbarazzarsi dei comandanti dell’esercito (la verità è che i comandanti stavano dalla sua parte, e chi ha organizzato il colpo di stato erano per lo più colonnelli insieme a non più di cinque generali), riguarda il futuro di Erdoğan e se per quest’ultimo la battaglia sia o meno un trionfo politicamente parlando. 

Nei confronti di chi ha partecipato al golpe Erdoğan agirà con lo stesso spirito di vendetta che era solito mettere in campo contro la dissidenza? Si troverà forse a combattere una nuova battaglia contro le istituzioni statali, l’esercito in primis – una battaglia iniziata con la destituzione di oltre 2000 giudici, e processerà i loro omologhi dell’esercito?

La verità è che Erdoğan è uscito più forte dal tentativo fallito di golpe, ma la sua è una forza temporanea. Qualcosa infatti si è spezzato, la convinzione cioè che nessuno sarebbe riuscito a sottrargli il potere, per poi scoprire improvvisamente che nel suo esercito c’è una corrente che gli si rivolta contro, desiderosa di annientarlo.  

Quello che è certo è che il regime di Erdoğan è il primo responsabile della divisione sociale che sta conoscendo la Turchia, e che la campagna lanciata contro i suoi avversari, in particolare i giovani di tutte le correnti, la stampa, Facebook e i social media, è la guerra condotta da un sistema autoritario contro tutti i dissidenti. Poi è arrivato il giorno in cui proprio questi strumenti di cui aveva decretato la chiusura e attraverso cui ha dissuaso dal colpo di stato lanciando il messaggio su Twitter in cui chiedeva ai sostenitori di scendere in strada, l’hanno salvato. […]

martedì 12 luglio 2016

Il terrorismo nei luoghi sacri

[Voci dal mondo arabo]

Come ha reagito la stampa araba agli attentati di Medina

Al-Masri al-Youm, 6 luglio 2016. Di Amr al-Shubaki

Se un attentatore suicida dell’Isis prende di mira le forze di sicurezza saudite durante il mese sacro, nel momento dell’appello alla preghiera del tramonto, e per di più nei pressi della tomba dell’Inviato (Maometto, Ndt) significa che siamo di fronte a una metamorfosi delle operazioni terroristiche. Nell’impatto quattro uomini della sicurezza hanno perso la vita, una scena che ha urtato i sentimenti religiosi di ogni musulmano oltre a quelli umani. Chi ha chiuso gli occhi davanti ai crimini dell’Isis perché questo prende di mira altre confessioni e religioni è complice quanto il kamikaze; i crimini che questa organizzazione commette contro gli arabi e i musulmani sunniti sono infatti maggiori di quelli che commette contro i musulmani sciiti o i non-musulmani. Chi è rimasto in silenzio di fronte all’esplosione avvenuta nel quartiere di Karrada a Baghdad, che ha provocato oltre 130 vittime, per lo più sciite, e ha pensato che ciò che è accaduto ad al-Qatif, a maggioranza sciita, non si sarebbe ripetuto a Medina o a Mecca è altrettanto colpevole, perché il terrorismo dell’Isis è un terrorismo assassino e i criminali non hanno patria, religione né confessione.

Un attentatore che si fa esplodere vicino alla moschea del Profeta riflette la trasformazione dei gruppi terroristici e il passaggio dalla fase del gruppo jihadista che accusa di miscredenza (takfīr) un governante o un sistema, ma limita l’uccisione dei semplici civili (come la Jamā‘at al-Islāmiyya e il Tanzīm al-Jihād in Egitto) e non compie operazioni suicide, alla fase dei gruppi takfiristi che non pongono alcun limite all’uccisione e allo sgozzamento quotidiani, come avviene in Iraq, Siria, Egitto, Tunisia, Francia, Turchia e America fino ad arrivare al cuore delle terre sacre dei musulmani, Medina.     

La metamorfosi dei gruppi terroristici è iniziata probabilmente dopo gli attacchi dell’11 settembre e la guerra dell’America al terrorismo, che ha favorito la diffusione di quest’ultimo. All’epoca comparve una nuova specie di terroristi, diversi rispetto ai vecchi terroristi. I nuovi erano in parte utenti dei social network, ma provenivano perlopiù da organizzazioni ideologiche che hanno banalizzato le norme relative a “dār kufr (casa della miscredenza)”, “dār ridda (casa dell’apostasia)”, “dār Islām (casa dell’Islam)”, “dār da‘wa (casa della Chiamata)”… fino a compiere operazioni terroristiche nei pressi della tomba del Profeta dell’Islam. 

I gruppi terroristici sono passati dal conflitto contro il potere interno con l’obbiettivo di farlo cadere e realizzare il loro progetto islamista, alla vendetta contro il mondo e l’umanità, nonostante sappiano bene di non essere capaci di far cadere un regime né in Medio-Oriente né in Occidente ma solamente di cercar vendetta contro il sistema, democratico o autoritario, e contro il popolo, musulmano o non-musulmano. Questi gruppi infatti sono cresciuti a suon di slogan superficiali e takfiristi che si ripetono sui social network, e che in poche settimane preparano giovani frustrati a intraprendere operazioni suicide, sconosciute alle organizzazioni jihadiste del secolo scorso.   

L’Iraq e la Siria sono diventati le nutrici per eccellenza del nuovo terrorismo perché offrono un ambiente fertile che attrae persone frustrate, mosse dal desiderio di sopraffazione, vendetta e denaro, e prive di formazione dottrinale. A un giovane del Tanzīm al-Jihad e della Jamā‘at Islāmiyya occorrevano anni di preparazione psicologica, dottrinale e religiosa prima di imbracciare un’arma e uccidere una persona. Ora invece un giovane è pronto a prendere le armi in pochi giorni e in poche settimane a compiere un attentato. Questo perché non è guidato da moventi propriamente dottrinali, ma dalla vendetta e dall’emarginazione e, a volte, dal denaro, benché questi siano riempiti di termini religiosi.

I sociologi e gli psicologi, e non solo gli esperti della sicurezza, dovrebbero studiare a fondo i moventi dell’attentatore suicida di Medina. Egli è parte di un’organizzazione che odia l’Islam e i musulmani e combatte tanto i sunniti quanto gli sciiti. Dio abbia pietà dei martiri del terrorismo in Arabia Saudita e in tutto il mondo.  

(Traduzione di Chiara Pellegrino per Fondazione Oasis)


mercoledì 6 luglio 2016

ISIS è “sintomo di una malattia, non la malattia stessa”

[Voci dal mondo arabo]


Breve rassegna della stampa araba



Al-Hayat, 4 luglio 2016. Di Jihad al-Khazin

Noi siamo una umma che si suicida ogni giorno, che trova sempre un nuovo modo di suicidarsi, lo sperimenta e il giorno successivo passa a un altro. Chi non è morto di spada è morto di qualcos’altro, e a noi non resta che dare l’annuncio del decesso e poi le disposizioni per la sepoltura. Se la decisione spettasse a me, porterei i cadaveri in una fornace come fanno in Occidente per far sì che la umma diventi polvere dispersa anziché una tomba sulla quale i nemici scrivono parole di vendetta e gioia maligna. 
È finito il tempo della rinascita araba (nahda); a una generazione ne è succeduta un’altra, siamo passati dalla catastrofe (nakba) alla disfatta (naksa), e i sogni di unità, prosperità e pace sono andati perduti. Alla pace è seguita la sottomissione, e nessuno ci ha voluti. Abbiamo mendicato un futuro migliore dai Paesi che ci hanno colonizzato, rubato il passato e il presente e poi abbandonati sulla via dell’annichilimento. Nel momento in cui nessuno ci ha considerati, ci siamo rivolti gli uni contro gli altri, ci siamo uccisi a vicenda e abbiamo distrutto il futuro come nessun nemico ha mai fatto. Poi abbiamo accusato un nemico inesistente attribuendogli la responsabilità per ciò che abbiamo commesso noi. 
Una nazione verso l’annichilimento, che non sa fare altro che cantare e danzare sulle tombe delle vittime. Perché abbiamo lasciato una discendenza? Perché abbiamo tanto desiderato mettere al mondo i figli? Per gettarli nella pattumiera della storia? Che cosa diranno dei padri i figli quando cresceranno? Cresceranno o saranno mangiati dai pesci del mare? 
Dopo Farouq Umar [bin al-Khattab, secondo califfo ben guidato, Ndt], Mu‘ammar Gheddafi. Dopo Khalid bin al-Walid [ibn al-Mughira, condottiero arabo delle origini, Ndt], Saddam Hussein. Dopo Muhammad ‘Abduh e Jamal al-Din al-Afghani, al-Zarqawi e al-Baghdadi. Dov’è il “sostegno sicuro” [Corano 2,257 e 31,21, Ndt]? Si troverà un giorno? Abbiamo gettato le basi dell’astronomia e abbiamo perso la strada di casa. Abbiamo scoperto lo zero, l’abbiamo dato ad altri e noi siamo rimasti a zero. Abbiamo fatto evolvere la medicina e i medicinali e ci siamo ammalati. Nella matematica abbiamo contribuito all’algebra e la geometria e abbiamo finito per essere frazioni decimali del mondo. […] 
E il futuro? Il futuro è di chi lo costruisce. Noi viviamo nel passato. Una parte di esso è stato glorioso e ha prodotto invenzioni. Nella nostra storia abbiamo quanto basta per andar fieri, se non fosse che andiamo fieri di una gloria inesistente, di vittorie che non sono mai arrivate, e di eroismi leggendari. […] 


Vignetta di Al-Quds al-‘Arabi, 3 luglio 2016.
Attacco terroristico in Bangladesh





Al-Sharq al-Awsat, 4 luglio 2016. Di Ma’mun Fandy

Non avrei mai immaginato di guardare un giorno la cartina del mondo arabo e vederne i confini tracciati con il sangue, da Baghdad a Damasco fino a Tripoli di Libia e Tripoli del Libano. […] È giusto domandarci chi sia il responsabile di questo spettro spaventoso, se la nostra cultura, le nostre politiche oppure i media, che diffondono quotidianamente queste immagini anche durante la fascia oraria protetta. […] Qual è la soluzione? Ridisegnare i tratti culturali delle nostre società? Dare l’esempio ai nostri figli e alle nostre figlie? Oppure adottare politiche specifiche per mettere fine a questa condizione di apatia di fronte alla mappa del sangue, politiche che facciano i conti con le radici del problema? L’esempio è senz’altro fondamentale, l’uomo politico deve avere il coraggio di correggere il nostro percorso culturale, anche se così facendo andrà contro corrente. […] 
I nostri responsabili devono pensare a nuove politiche di istruzione, che subisce il peggiore degli sfruttamenti. […] Le nostre istituzioni religiose devono occuparsi della direzione spirituale e di ampliare gli orizzonti della conoscenza delle diverse religioni presenti nelle nostre società. Queste istituzioni devono prendere coscienza del ruolo che è stato loro affidato e non devono usurpare i ruoli altrui. Il problema principale delle nostre società è che la maggior parte di noi non svolge correttamente il proprio ruolo perché è impegnato a svolgere quello degli altri. L’uomo politico fallisce in politica perché vuol essere un uomo di religione, mentre l’uomo di religione fallisce nel presentarsi come modello spirituale perché vuol essere un policy maker. La mappa del sangue che disegna i confini dei nostri Paesi non richiede una soluzione semplice e banale che identifichi la crisi con l’Isis o con gli estremisti: tali manifestazioni sono i sintomi di una malattia, non la malattia stessa. Dobbiamo riflettere a lungo sulla portata e sulla profondità della crisi.    

martedì 14 giugno 2016

"La commistione tra Islam e politica ha fatto sfociare l’Islam nel terrorismo"

[Voci dal mondo arabo]


Dopo la strage di Orlando, un giornalista saudita solleva una critica: "La maggior parte dei popoli islamici cerca una via di fuga, eludendo la verità e inventando ragioni presunte"

Al-Jazeera, 14 giugno 2016. Di Muhammad Al al-Shaykh

So con certezza che la maggior parte dei popoli islamici odia la verità, cerca la via della fuga, eludendola e inventando delle ragioni presunte. Ho maturato questa certezza dopo aver scritto periodicamente e osservato, per oltre quindici anni, le reazioni che suscitano i miei scritti.

Dopo l’11 settembre ci siamo ostinati, abbiamo imbrogliato e rifiutato di accettare la verità, il fatto cioè che gli attentatori fossero musulmani arabi, e abbiamo detto che questo crimine efferato non aveva nulla a che vedere con l’Islam e con i musulmani, ma era un complotto dei nemici sionisti. Finché ha fatto la sua comparsa Bin Laden, criminale deceduto, che ha rivendicato l’attentato.

Ieri un afgano di origini musulmane ha fatto irruzione in una discoteca per gay a Orlando in America con un kalashnikov, ha ucciso 50 persone e ne ha ferite altre 53 in uno dei più grandi attentati terroristici dopo quello dell’11 settembre. Questo fatto avrà sicuramente conseguenze gravi per l’immagine dell’Islam tra gli americani e contribuirà a rafforzare i sentimenti di odio verso i musulmani da parte americana, in particolare ora che la battaglia presidenziale è alle porte e la lotta tra i candidati del partito Repubblicano e Democratico divampa. In questo periodo in particolare, ciascun candidato cercherà di polarizzare i sentimenti degli elettori e ottenere il loro voto. Non ho il benché minimo dubbio che il candidato di estrema destra, Donald Trump, sfrutterà questo attentato terroristico per rafforzare la sua celebre presa di posizione razzista contro i musulmani, e la candidata Hillary Clinton sarà costretta a tenere il passo con lui. I primi perdenti saranno gli americani musulmani, poi i musulmani di ogni parte del mondo. Sarà una sconfitta per la reputazione e l’immagine dell’uomo musulmano, dubiteranno di lui e lo accuseranno di terrorismo, ovunque egli andrà.

Come dissi in occasione degli eventi dell’11 settembre, e come ribadisco ora, la commistione tra Islam e questioni politiche ha fatto sfociare l’Islam nella violenza e nel terrorismo. Certo, non vi è relazione tra l’Islam e il terrorismo, ma chiunque creda che l’Islam debba entrare nelle questioni politiche, ne fornisca la categoria, e difenda ciò in cui si avventurano i movimentisti sedicenti musulmani è responsabile del terrorismo, sia che condanni questi crimini sia che li accolga.

L’Islam è prima di tutto il rapporto tra l’uomo e il suo Signore, un rapporto riassunto dai cinque pilastri dell’Islam, che sono le costanti in ogni tempo e in ogni luogo. Il resto, come dico e ripeto sempre, sono questioni puramente terrene […], stabilite dalle necessità contingenti. I sedicenti musulmani politicizzati rifiutano le realtà storiche nonostante queste siano confermate come tali, e non ritengono necessario accompagnarle con cambiamenti di natura contingente. Il risultato della divergenza tra le condizioni del passato e le necessità del presente è il fallimento dei sedicenti musulmani e delle loro teorie. Ciò ha fatto sì che l’Islam diventasse per i musulmani politicizzati uno strumento di violenza e terrorismo.

Perciò io dico che il terrorismo continuerà a minacciare il mondo da un capo all’altro fintanto che i musulmani non si convinceranno fermamente a tenere lontana la loro religione, il lecito (halāl) e l’illecito (harām) dai corridoi della politica. La religione è costante, non muta, mentre la politica deve mutare per adeguarsi alle condizioni e alle necessità mutevoli.

giovedì 5 maggio 2016

Egitto: i giornalisti criticano il regime sulla libertà di stampa

[Voci dal mondo arabo]

La crisi tra il governo egiziano e il sindacato dei giornalisti sui principali quotidiani arabi

Assemblea generale dei giornalisti egiziani assediata dalle forze di sicurezza
Al-Jazeera, quotidiano qatarino, 4 maggio 2016

Oggi il sindacato dei giornalisti ha indetto inaspettatamente un’assemblea generale per discutere delle pratiche messe in atto dal ministero dell’Interno contro i giornalisti e dei ripetuti assedi alla sede del sindacato. Le forze di sicurezza egiziane hanno inasprito l’assedio alla sede del sindacato dei giornalisti e da domenica sera hanno bloccato tutte le strade limitrofe.
I giornalisti egiziani hanno raggiunto la sede del loro sindacato nel centro del Cairo per prendere parte all’assemblea generale nel bel mezzo di un assedio che non ha precedenti. Alcune fonti hanno riportato ad al-Jazeera che la sicurezza egiziana esorta i sostenitori del regime a recarsi alla sede del sindacato dei giornalisti per manifestare contro questi ultimi e ostacolare l’assemblea.
Alcuni membri del sindacato dei giornalisti propongono all’assemblea generale di adottare una risoluzione che vieti a tutti i giornali cartacei di pubblicare finché il ministro degli Interni, il Gen. Magdi Abdel al-Ghaffar, non si dimetta, mentre altri chiedono che si stipuli un accordo per vietare la diffusione di notizie e comunicati del ministero sui giornali.

Il discorso ufficiale

Il ministero dell’Interno ha affermato in un comunicato di aver arrestato i due giornalisti all’interno dell’edificio del sindacato secondo la decisione della procura con due capi d’accusa – incitamento a manifestare e diffusione di maldicenze, ma ha negato di aver assediato l’edificio o essere ricorso alla forza.
Entrambi i giornalisti sono stati portati davanti al pubblico ministero che ha disposto quindici giorni di detenzione in attesa di ulteriori indagini, e ha individuato una serie di capi d’accusa che vanno dal sabotaggio della Costituzione e delle leggi, al danneggiamento dell’unità nazionale e della pace sociale, alla diffusione di notizie false nel tentativo di turbare l’opinione pubblica.
Da ieri il sindacato dei giornalisti in Egitto ha intensificato le sue azioni di protesta esponendo a mezz’asta la sua bandiera e issando delle bandiere nere in segno di protesta contro l’arresto dei suoi due membri. […]

Libertà di stampa
Al-Mada, quotidiano di politica iracheno, 26 aprile 2016



L’inquisizione dei giornalisti egiziani
Al-Quds al-‘Arabi, quotidiano panarabo, 4 maggio 2016

Le autorità egiziane sono come colui che si spara alla gamba e colpisce direttamente il tallone del piede, ovvero i giornalisti e i loro sindacati, che si schierarono per la maggior parte a favore del Presidente al-Sisi quando il Presidente eletto Muhammad Morsi fu destituito. In settantacinque anni dalla nascita del sindacato dei giornalisti egiziani nessun governante egiziano aveva mai osato attaccarne la sede, né Nasser, né Sadat, né Mubarak e neppure Morsi. Con ciascuno di loro si verificarono delle crisi, grandi o piccole, ma fino ad oggi non si era mai arrivati a rompere del tutto i ponti che ora invece sono stati rotti senza esitazioni, nonostante i giornalisti siano stati nel loro insieme l’avanguardia dei sostenitori e i portabandiera del governante. Essi non solo erano la linea di difesa avanzata, ma anche la rampa di lancio dei missili contro chi si proclamava in un modo o nell’altro, contro il governante. […]

Dov’è “l’informazione della vergogna”?
Al-Masry al-Yawm, quotidiano egiziano, 5 maggio 2016

Ti sorprendi quando ti raccontano dell’informazione della vergogna e dalla mattina alla sera diffamano i giornalisti accusandoli di incitare le persone e aizzare l’opinione pubblica contro lo Stato e il Presidente, senza neppure domandarsi in che cosa consista esattamente questa “informazione vergognosa” – se assumiamo la validità di questa espressione in un Paese che desidera essere normale (non diciamo democratico o avanzato) e che perciò non può vivere senza informazione libera, un minimo di libertà e un lavoro retribuito.
La vera domanda è in che cosa consista questa informazione vergognosa di cui alcuni hanno parlato quotidianamente, dimenticando o facendo finta di dimenticare che quell’informazione è figlia legittima del sistema di governo attuale che essi sostengono e difendono contro l’“informazione della vergogna” in una scissione che appare scioccante.
La verità è che il loro problema con questo tipo di informazione, se assumiamo la loro buona fede, è un problema di consapevolezza e ignoranza in un Paese colpito dalla crisi economica, con un sistema d’istruzione in rovina, in cui l’indottrinamento e il lavaggio del cervello è capace di formare tra molte persone “una non coscienza”, rendendole incapaci di pensare.
Dov’è allora l’informazione della vergogna? Essa è opera di quei giornalisti che sostengono qualsiasi sistema politico, sono immuni da qualsiasi provvedimento giudiziario e viaggiano con il Presidente ovunque egli vada, e dei giornalisti autorizzati a condurre programmi in cui vengono commessi ripetutamente dei veri e propri crimini senza che vi sia alcun controllo. Essi spiano i telefoni degli ospiti, umiliano il grande popolo siriano nonostante la loro catastrofe per poter dire “viva l’Egitto”, esattamente come i loro “complici” della stessa scuola umiliano i nostri fratelli magrebini. […]

mercoledì 20 aprile 2016

Dai media arabi: separare la sfera religiosa da quella politica

[Voci dal mondo arabo]

Due articoli dalla stampa araba mettono in luce il dibattito in corso sulla necessità di riforma religiosa e politica.

La precedenza alla lotta all’estremismo
Al-Sharq al-Awsat, 25 marzo 2016. Di Ridwan al-Sayyid

Un hadīth dell’Inviato di Dio – le preghiere di Dio e la pace siano su di lui – afferma che la conoscenza sarà preservata dai giusti di ogni generazione; essi la purificheranno dalle interpretazioni di chi eccede e dalle distorsioni di chi afferma il falso. Dopo due decenni è diventato evidente chi sono coloro che eccedono e chi sono coloro che affermano il falso e distorcono. Entrambe le malattie si sono manifestate nel cuore dell’Islam o se ne sono ammantate. Tutti noi ne abbiamo seguito le manifestazioni e abbiamo provato ad affrontarle. La questione è diventata evidente in seguito alla comparsa di al-Qaida e dei suoi rami, che negli ultimi quindici anni hanno inciso profondamente nelle società, negli Stati e nel mondo sostenendo alcune interpretazioni della religione – il takfīr, l’uccisione e il califfato di al-Baghdadi sono tra le più recenti –, e alla distorsione della religione operata dall’Iran in nome dell’opposizione piuttosto che della protezione dei santuari degli Ahl al-bayt [gente della Casa, famiglia del Profeta] o degli interessi strategici iraniani.

Dal diciannovesimo secolo i sociologi occidentali divergono dai teologi e dagli uomini di religione sul modo di considerare la religione. Gli ‘ulamā’ si focalizzano sui principi della religione e sulle sue manifestazioni cultuali ed etiche. Quanto ai sociologi, dicono di interessarsi alle influenze non religiose della religione e agli effetti mondani e sociali evidenti di quest’ultima. È in atto una discussione tra le parti sulla possibilità di comprendere le manifestazioni e le influenze senza considerare i principi dottrinali o teologici della religione. Tuttavia il riferimento ai fondamenti rimane necessario per leggere la modalità con cui avvengono i cambiamenti nelle nozioni religiose e come queste vengano sfruttate per obbiettivi autoritari e strategici (al-Qaida, Daesh, Hezbollah, ‘Asā’ib ahl al-Haqq [gruppo paramilitare sciita iracheno], le brigate fatimidi [sciiti afghani]…).

Ognuna di queste parti segue la via che gli sembra più agevole per giungere a ciò che si è prefissata.Personalmente ritengo che l’operato di al-Qaida, Daesh e dei loro simili rappresenti l’eccesso e l’estremismo, mentre le azioni delle milizie iraniane rappresenti la distorsione [della religione]. Ho stabilito questa divisione perché i primi parlano di combattere la superbia del mondo, correggere la fede rendendo lecito il sangue e uccidendo in nome del takfīr, o dicono che il fine (lo Stato Islamico o l’applicazione della sharī‘a) giustifica i mezzi […]. Quanto agli iraniani, che distorcono, guadagnano gli sciiti alla propria causa col pretesto di liberare lo sciismo dalla tirannia e diffonderlo con questo metodo. […] 


Il mondo e il popolo siriano
Al-Jazeera, 18 aprile 2016

















La riforma religiosa e la sua relazione con la riforma politica
Al-Maghris, 8 aprile 2016. Di ‘Ali al-Murabit 

Il problema della separazione della religione dalla politica è diventato il fulcro delle battaglie ideologiche che da anni in Marocco vedono coinvolti i laici, che esortano a separare la religione dalla politica, e la corrente islamica che si oppone a tale separazione. È evidente che chi si addentra nella questione dal punto di vista islamico, offre una visione della realtà evidentemente inadeguata condannando le dottrine contemporanee e i sistemi di governo importati. Essi rifiutano in maniera assoluta la democrazia e la considerano [una forma di] miscredenza nonostante essa comprenda alcuni principi e disposizioni presenti nella shari‘a islamica, tra cui il principio che sancisce la salvaguardia della responsabilità e il diritto dei popoli di scegliere i loro governanti.

Nella maggior parte dei Paesi arabi questa corrente è ascesa al potere proprio in nome della democrazia, a seguito del movimento popolare noto come Primavera araba, e il partito islamista di Giustizia e Sviluppo ha assunto la guida del governo marocchino. Quanto ai laici che rifiutano la sharī‘a e sono vincolati agli accordi internazionali, le battaglie politiche ne indeboliscono gli sforzi e ne prosciugano le forze. […]
Il fatto è che il campo religioso è esso stesso un campo politico e ideologico. Esso è infatti un campo di battaglia all’interno del quale si consumano le lotte per il governo. Negli anni Settanta lo Stato è tornato nel campo religioso con forza e adottando una strategia di dominio, nel tentativo di contrastare e combattere l’opposizione di sinistra. Oggi però ci troviamo di fronte a più interpretazioni del testo religioso e del diritto islamico al punto che la stessa religione è diventata uno spazio di conflitto non solamente tra il governo e gli islamisti, ma anche tra gli islamisti dello stesso Paese.


L’opulenza di al-Sisi e la crisi del popolo egiziano, devastato dalla disoccupazione, dalla corruzione, dalla povertà, dalla crisi del turismo e dai rincari

Al-Jazeera, 17 aprile 2016

martedì 12 aprile 2016

Dai media arabi: riformare la religione per fermare la violenza

[Voci dal mondo arabo]


Due articoli dalla stampa araba mostrano la necessità di riformare la religione per arginare le manifestazioni violente dell'Islam

Al-Safir, quotidiano libanese sciita, 11 aprile 2016. Di Sami Kalib

[…] Per il momento le persone illuminate non hanno fatto ancora nulla di rilevante in questa umma per contrastare i sedicenti religiosi con la scienza e con il diritto, e smentendo le interpretazioni che i terroristi offrono dei testi e degli hadīth. L’opposizione intellettuale e religiosa continua a essere superficiale e non si addentra mai nel cuore della catastrofe alla quale è esposto il nobile Corano ogni qualvolta è brandito erroneamente al fine di dare alle fiamme, sgozzare e portare distruzione.
Difficilmente la soluzione può arrivare dagli uomini di religione. Le spaccature e i bagni di sangue non consentono più di fermare la catastrofe. Gli interessi di natura religiosa che uccidono le religioni non consentono più di fermare le discordie (fitan), le sciagure e la devastazione. Gli eserciti possono essere in grado di fare opposizione al terrorismo, bloccarne l’espansione e mitigare la presenza dei partiti. Ma il mondo ha bisogno di piani per il breve, medio e lungo periodo. I giuristi musulmani sinceri possono riuscire a mitigare la devastazione attraverso la lettura dei testi, concordandone e unificandone le interpretazioni. Ma è un dovere delle persone illuminate del mondo – arabe e occidentali, dei democratici, dei liberali, dei laici e degli uomini di religione riformatori, pensare a progetti di sviluppo intellettuale, finanziario e politico capaci di ripristinare la fiducia delle persone nello Stato e istituire l’intesa reciproca tra gli Stati. Se ciò non dovesse accadere, il mondo intero, dall’oriente all’occidente, sarebbe sull’orlo del disastro e si verificherebbero nuovi bagni di sangue in nome delle religioni. […]

Tentativi falliti di risolvere la crisi siriana
Al-Jazeera, quotidiano qatarino, 11 aprile 2016. Vignetta di ‘Isam Ahmad
















Il rinnovamento del pensiero e il ritorno della quiete nella religioneAl-Sharq al-Awsat, quotidiano panarabo, 8 aprile 2016. Di Ridwan al-Sayyid

[…] La prima questione di cui discutono i capi dello Stato maggiore della guerra, arabi e musulmani, uniti nella coalizione islamica, è la questione ideologica. Essa si prefigge di riportare la quiete nella religione e nelle società. Il compito è senz’altro difficile ma non impossibile. La difficoltà è dovuta alla compenetrazione di fattori ideologici, mediatici, socio-economici e internazionali. Sul piano ideologico-religioso, occorre operare per cambiare le nozioni di sharia, jihad, comunità e Stato, nonché le prerogative della religione nelle società e quelle dello Stato. Nella nostra esperienza storica si è verificata una compenetrazione tra religione e Stato, ma questi due non sono una cosa sola. Compito dello Stato è amministrare la cosa pubblica, mentre la religione è preposta alla dottrina, agli atti di culto e all’etica delle persone, e all’influenza che questi hanno nella loro vita privata e pubblica. Questa attività di revisione e affrancamento, se così si può chiamare, spetta alle istituzioni religiose, che sono chiamate a risvegliarsi facendo autocritica, rivedendo la loro esperienza moderna, orientandosi verso altre fatwe e verso un altro insegnamento religioso, mantenendo vive le costanti della religione nell’inviolabilità del sangue, della quiete e della dignità, e ripristinando l’etica della coesione, della mitezza e della fiducia tra le persone. Questo non è un ammonimento ma un dovere degli uomini di religione, perché “custodiscano la religione nelle sue costanti consolidate e nelle sue peculiarità universali”. […]

martedì 8 marzo 2016

Perché la bandiera dello Stato Islamico è nera

* Articolo scritto per Fondazione Oasis

“Il segreto di una bandiera sta nel fatto che unisce un popolo e crea unità. La bandiera è un segno e una prova di unità della loro parola e dei loro cuori; è come se fossero un solo corpo, uniti da un legame più forte di quello di sangue. Sul campo di battaglia non rinunciano alla vittoria finché la loro bandiera sventola e rende più intensi il loro sforzo e la loro passione. Ma se la bandiera cade, si lasciano invadere dalla paura e dal terrore: alcuni fuggono, altri si disperdono”. 
Ahmad Cevdet Pasha, storico e ufficiale ottomano – XIX secolo.

Era il gennaio del 2007 quando al-Fajr, l’ente di comunicazione di al-Qaida, diffuse per la prima volta l’immagine della bandiera dell’allora Stato Islamico in Iraq. All’inizio il fatto non destò particolare sorpresa perché le bandiere nere sono da sempre legate alla storia islamica. Secondo gli storici musulmani, il Profeta e i suoi primi successori, i Califfi ben guidati, compirono le loro conquiste all’insegna della bandiera nera, mentre gli abbasidi fecero degli stendardi neri l’emblema della loro dinastia. Il colore nero, associato alle bandiere e spesso anche agli abiti, è quindi l’icona dell’ascesa della nuova religione, delle conquiste islamiche e della lotta per il potere califfale. È alla luce di questa storia che dev’essere interpretata la bandiera dello Stato Islamico. 
A illustrare questo connubio ci hanno pensato i webwriter arabi, che non hanno fatto mancare trattati sulle origini e le ragioni storiche delle insegne, argomentandone la legittimità a colpi di hadith e versetti coranici. Tra i tanti, ci limitiamo qui a considerarne due particolarmente esemplificativi: il testo redatto da un gruppo di militanti anonimi dello Stato Islamico, e la dichiarazione rilasciata all’inizio del 2015 da Hizb al-Tahrir, partito politico d’ispirazione islamista. 


Le bandiere nere del Profeta
Imitare il Profeta, in cui, secondo il Corano si trova “un esempio buono per chi spera in Dio e nell’ultimo giorno” (33,21), e i suoi compagni è il fulcro dell’ideologia salafita che, unita alla tendenza jihadista, ispira il modus operandi dello Stato Islamico. L’adozione della bandiera nera da parte dell’Isis rientra perciò in questo schema. 

Il Profeta e i suoi compagni, racconta la tradizione, usavano scendere in battaglia preceduti da una bandiera nera (râya) e un vessillo bianco (liwâ’) che recavano la scritta, in bianco e in nero rispettivamente: “Non vi è altro dio che Iddio e Maometto è il suo profeta”. Fin da subito la prima divenne il segno distintivo dei capi dei reparti dell’esercito. Maometto in persona, mentre guidava il suo esercito all’assedio di Khaybar nel 629, consegnò la bandiera nera ad ‘Ali: “Domani darò la bandiera a un uomo che ama Dio e il suo inviato e che è amato da Dio e dal suo inviato”. La diede ad ‘Ali. 
Il vessillo bianco divenne invece il segno distintivo del comandante dell’esercito, come proverebbero un paio di detti riportati dai tradizionisti Ibn Majah (“Il Profeta entrò a Mecca il giorno della conquista brandendo il vessillo bianco”) e al-Nasa’i (“Quando il Profeta nominò Usama bin Zayd a capo dell’esercito per conquistare i romani, annodò il suo vessillo con le sue stesse mani”). 
Le bandiere erano pertanto un segno del sostegno divino e scendere in battaglia senza di esse non era di buon auspicio. Nel suo commento agli hadith di al-Bukhari, al-‘Asqalani (m. 1448) spiegava che “è raccomandabile portare le bandiere in guerra. È bene che la bandiera sia con il comandante o con chi è investito di questo compito durante la guerra”. Il nome stesso con cui era nota la bandiera del Profeta, l’Aquila, suggeriva sempre secondo al-‘Asqalani un senso di grandezza e forza.

Fin dalle loro origini le bandiere nere conobbero una rapida diffusione per mano dei soldati, che le esibivano di ritorno dalla guerra in segno di vittoria, come narra tra gli altri un detto riportato da al-Bukhari: “Entrando nella moschea vidi il Profeta che predicava dal pulpito (minbar) e un uomo con una spada a tracolla. Ecco sventolare le bandiere nere! Domandai: ‘Che cosa sono queste bandiere?’ Dissero: ‘‘Amr bin al-‘As e il suo esercito sono tornati dalle spedizioni’”. 
Ma oltre a quelle nere, sul campo di battaglia – racconta la tradizione – comparivano spesso anche bandiere colorate, che fungevano da segno distintivo della singola tribù, come ricordano al-Tabarani (m. 971) (“Il Profeta annodò le bandiere degli Ansar e le fece gialle”), e Ibn Abu ‘Asim (m. 900) (“Il Profeta annodò la bandiera rossa dei Banu Sulayman”). 

L’apocalisse delle bandiere nere
Nella storia islamica l’idea della bandiera nera è inoltre legata a un certo numero di tradizioni messianiche secondo le quali il Profeta avrebbe preannunciato la sofferenza che avrebbe colpito la sua famiglia dopo la sua morte. Dall’Oriente però sarebbero giunte bandiere nere che avrebbero guidato i suoi discendenti alla vittoria finale contro il governo empio consentendo loro di restaurare la giustizia. 

La gente della mia casa che verrà dopo di me cadrà in disgrazia, sarà esiliata e allontanata finché dall’Oriente verrà un popolo con le bandiere nere. Essi chiederanno il bene e non gli sarà dato, allora combatteranno e vinceranno e sarà dato loro ciò che avevano chiesto ma essi non lo accetteranno. Essi consegneranno le bandiere nere a un uomo della mia casa – recita un hadith di Ibn Majah. 

Questa e altre tradizioni simili conobbero una certa diffusione negli ultimi anni del califfato omayyade (661-750), quando erano sfruttate dai loro rivali abbasidi nel tentativo di aizzare le folle contro la dinastia. A questa propaganda i califfi in carica reagirono con il pugno di ferro: chi avesse diffuso tali tradizioni sarebbe stato perseguitato. Ma a nulla valsero le minacce e per molti anni quelle tradizioni circolarono in tutto il Califfato, nonostante la loro autenticità fosse messa in discussione già dagli storici dell’epoca. 

Il colore della vendetta

Con l’avvento al potere degli abbasidi, che governarono l’impero dal 750 al 1258, le bandiere nere diventarono l’emblema del Califfato, e gli abiti neri simbolo della loro elezione. 
Le ragioni di questa precisa scelta cromatica non sono del tutto chiare e hanno dato adito a diverse ipotesi. Secondo alcuni esperti, gli abbasidi avrebbero scelto il nero in contrasto con il bianco della bandiera omayyade, una teoria che però molti ritengono infondata per mancanza di prove dirimenti. Per altri il nero sarebbe stato un segno di lutto per la scomparsa di Yahya bin Zayd, discendente di ‘Ali morto nel Khorasan nel 125/743. Ma anche questa teoria sarebbe fragile perché – spiegano gli storici – all’epoca il colore nero non era necessariamente un segno di lutto. Gli abiti neri potrebbero piuttosto essere un segno di vendetta, ciò che del resto erano già in epoca preislamica. Una tradizione vuole che il celebre poeta preislamico Imru’ al-Qays accogliesse una delegazione della tribù dei Banu Asad, che aveva ucciso suo padre Hujr, indossando abiti e turbante nero in segno di vendetta. Quest’abitudine si sarebbe consolidata in seguito alla battaglia di Uhud (625), che segnò la sconfitta dei musulmani per mano dei pagani meccani. Da quel momento i partigiani di Maometto avrebbero indossato abiti neri. 

Sotto il governo abbaside la tradizione degli abiti neri si sarebbe affermata con il secondo califfo della dinastia, al-Mansur, il quale decretò l’obbligo per tutti gli abitanti di Kufa di indossare vestiti rigorosamente neri. Una regola difficile da far rispettare nel Califfato: in Egitto occorsero vent’anni perché gli imam adottassero l’abitudine di vestire in nero durante la preghiera. Da questa tradizione ha origine l’epiteto con il quale i califfi abbasidi sarebbero stati ricordati nella storia: i musawwida – quelli che vestono di nero

Propaganda e contro-propaganda
Dagli abiti e dalle bandiere nere i califfi abbasidi traevano legittimità e autorevolezza. Essi si adoperarono così a creare una propaganda ad hoc per sancire il legame tra il colore nero, il Profeta e la loro dinastia. In ricordo delle battaglie epiche il nero non poteva che essere un segno di benedizione della famiglia del Profeta. 

In più occasioni però questa propaganda assunse connotazioni violente. Ciò accadde nel momento in cui gli abbasidi rivendicarono di essere gli unici veri eredi di Maometto e della bandiera nera, a scapito dei loro rivali alidi (discendenti anch’essi da Maometto, ma attraverso ‘Ali). La storia narra che il Califfo Harun al-Rashid addirittura esiliò il tradizionista Abu Bakr bin Ayyash, reo di aver diffuso una tradizione secondo la quale Maometto avrebbe donato la bandiera nera ad Amr bin al-‘As, comandante che guidò la conquista militare in Egitto nel 640. Per contro gli abbasidi favorirono la diffusione di un hadith secondo il quale l’Angelo Gabriele avrebbe predetto il governo dei discendenti di al-Abbas, lo zio del Profeta, il cui abbigliamento sarebbe stato nero. 

Le bandiere e gli abiti neri erano ormai diventati parte integrante e irrinunciabile della propaganda e contro-propaganda nella lotta per il potere terreno, ed erano destinate a comparire anche nelle tradizioni che narrano della vita dopo la morte. Muslim, noto tradizionista e autore di una delle raccolte canoniche di hadith, riporta che “il giorno della resurrezione ogni traditore avrà una bandiera” e il poeta preislamico Imru’ al-Qays porterà lo stendardo dei poeti nel Fuoco.

La bandiera dell’ignoranza e la fine dei tempi
Nei secoli, le narrazioni apocalittiche non hanno mai abbandonato la letteratura islamica e quando le bandiere nere sono ricomparse in Siria e in Iraq nel 2007 hanno risvegliato millequattrocento anni di tradizioni mai morte. Ai significati classici sono andati aggiungendosene altri, frutto di interpretazioni delle vicende che hanno segnato la storia contemporanea del Medio Oriente. 
Per esempio dal detto di Muslim “Chi combatte sotto l’egida di una bandiera d’ignoranza (jâhiliyya), insorge in difesa della solidarietà tribale, esorta la solidarietà tribale o fa trionfare la solidarietà tribale, e viene ucciso, muore una morte pagana”, i contemporanei avrebbero tratto un monito contro gli Stati nazionali. 

Secondo questa tradizione, il musulmano si troverebbe a dover scegliere se combattere sotto l’egida della bandiera dell’Islam o della bandiera dell’ignoranza – cioè della bandiera del proprio Paese. La bandiera nera quindi preserverebbe i musulmani dalla possibile morte in stato di jâhiliyya, paganesimo, mentre chi perde la vita combattendo a favore di un popolo, una fazione, un tiranno o un sovrano che non sia Dio, muore una morte pagana. A questo proposito, nel suo documento Hizb al-Tahrir critica la formazione degli Stati nazionali e le fatwe che giustificano 

l’adozione della bandiera dell’ignoranza di Sykes-Picot, creata dai francesi e dagli inglesi per consacrare l’idea di nazionalismo (wataniyya). Questi hanno creato per ogni Paese islamico una bandiera che lo rappresenta. Tali bandiere sono diventate simbolo di divisione e frammentazione e hanno sostituito l’Aquila, la bandiera del Profeta. Quei coloni infedeli, nemici dell’Islam, hanno chiesto ai loro agenti, i governanti musulmani, di farsi protettori delle bandiere della divisione perché sanno che essere fedeli a queste bandiere significa essere fedeli agli infedeli colonizzatori. 


Bandiera di Hezbollah
Oltre alle accuse rivolte agli Stati nazione e ai loro governanti musulmani, ad alimentare lo spirito apocalittico dello Stato Islamico contribuiscono le narrazioni, molto diffuse sul web, dello scontro nel Levante tra le bandiere nere di Isis e le bandiere gialle del “partito di Satana”, Hezbollah. Alla luce di questa narrativa, gli scontri in corso in Siria tra milizie sciite, qaediste e dello Stato Islamico, gruppi di ribelli e alleati del Presidente Bashar al-Asad sarebbero segni che annunciano la prossimità dell’Ora e preluderebbero alla comparsa e alla battaglia finale tra il Messia e l’Anticristo. 

La loro identità ha suscitato un grande dibattito e vivaci discussioni tra i webwriter. Per i propagandisti dello Stato Islamico il Mahdi non può che essere un uomo uscito dalle fila delle bandiere nere, mentre all’Anticristo possono essere attribuite identità diverse, ma l’idea più diffusa resta quella che lo vede incarnato nelle milizie sciite di Hezbollah. 

Queste narrative non fanno però i conti con la storia: esse dimenticano infatti che le bandiere nere erano tradizionalmente associate agli sciiti e a coloro che vedevano nella famiglia del Profeta i legittimi eredi del Califfato; e che a ispirare le profezie delle bandiere gialle furono i berberi del nord Africa che a metà dell’ottavo secolo si ribellarono prima ai governatori omayyadi e poi a quelli abbasidi, sostenuti dalla setta dei kharijiti (i fuoriusciti) i cui fondatori uccisero il primo imam sciita ‘Ali. Per molti anni gli omayyadi e poi gli abbasidi temettero le bandiere gialle dei berberi, che minacciavano di invadere il Levante. 
Nasce anche attraverso questi riferimenti simbolici quella che William McCants, esperto di narrativa dello Stato Islamico, definisce un’“apocalisse settaria” in cui tutti, sunniti e sciiti, rivendicano un ruolo da protagonisti nello scontro finale tra bene e male. 

Bibliografia essenziale

William McCants, The Isis Apocalypse. The History, Strategy, and Doomsday Vision of the Islamic State, St. Martin’s Press, New York 2015
Jean-Pierre Filiu, L’apocalisse nell’Islam, Obba Oedizioni, Milano 2011
Mashrû‘at al-râya fî al-Islâm disponibile su JustPaste.it (consultato il 19 febbraio 2016)
Bayân Hizb al-Tahrîr, disponibile su http://www.hizb-ut-tahrir.org/index.php/AR/wshow/2747/, (consultato il 19 febbraio 2016).
Halil ‘Athamina, The Black Banners and the Socio-Political Significance of Flags and Slogans in Medieval Islam, «Arabica» 36 (1989), pp. 307-326.
Moshe Sharon, Black Banners from the East: The Establishment of the Abbasid State: Incubation of a Revolt, ACLS Humanities E-Book, New York 2013.

martedì 23 febbraio 2016

È guerra tra jihadisti: al-Qaeda vs Isis

Un lungo comunicato del leader di al-Qaeda, Ayman al-Zawahiri, esorta i qaedisti che stanno combattendo il loro jihad in Iraq e in Siria a diffidare della miscredente Arabia Saudita, colpevole di aver instaurato relazioni diplomatiche con l’Occidente a scapito del Regno, aver tradito Osama bin Laden consegnandolo agli americani, dato rifugio ai premier arabi destituiti a seguito delle “primavere arabe”, ed essersi schierata contro il terrorismo jihadista.
Ma l’Arabia Saudita non è l’unico bersaglio del leader di al-Qaeda; la lettera diventa infatti un’occasione per colpire i “fanatici takfiristi” dello Stato Islamico, che strumentalizzano il takfîr per mettere in cattiva luce i “rivali” qaedisti.     


Qui sotto la traduzione parziale del documento.

Clicca qui per consultare il testo originale in arabo.

Il Levante è affidato ai vostri colli

[...] Fratelli miei, musulmani e combattenti, tutti hanno seguito la recente conferenza di Riyadh e la successiva dichiarazione dell’Arabia Saudita sulla formazione di un’alleanza per combattere ciò che essa, nell’interesse dell’America, definisce terrorismo. Questi sono solo due anelli nella catena dei tentativi dell’Arabia Saudita e dei suoi simili malvagi di deviare dalla retta via la traiettoria del jihad in generale, e nel Levante in particolare, affondarlo nella palude dello Stato nazionale e trasformarlo in un fallimento, esattamente come hanno fatto con quella che hanno definito “primavera araba”. 

Perciò supplico i miei fratelli che combattono nel Levante di stare in guardia da questo governo malvagio e non dimenticare la sua storia oscura a servizio dei nemici dell’Islam.
Fu ‘Abdul Aziz al-Saud a stipulare, nel 1915, il trattato [di Darin, ndt] con la Gran Bretagna, che nella prima Guerra mondiale scese in campo contro lo Stato ottomano. La Gran Bretagna avrebbe protetto Ibn Saud, che in cambio si impegnava a non stipulare accordi con nessun altro governo straniero. Il trattato mirava a colpire lo Stato ottomano.

Quando nel 1936 scoppiò la grande rivolta in Palestina, ‘Abd al-‘Azîz al-Sa‘ûd inviò i suoi due figli a guidare gli insorti e, insieme a re Ghazi e il principe ‘Abdallah, rilasciò la seguente celebre dichiarazione: “Abbiamo già sofferto molto per la situazione in Palestina e, in accordo con i nostri fratelli, i re degli arabi e il principe ‘Abdallah, vi esortiamo a restare in pace e risparmiare le vite, fidandovi delle buone intenzioni del governo britannico, nostro amico, del suo desiderio dichiarato di realizzare la giustizia, e del nostro aiuto”. Così i Palestinesi si sottomisero e la rivoluzione si spense.

Il Presidente Roosevelt e il Re Abdul 'Aziz al-Saud
Con la fine della seconda Guerra mondiale, nel 1945 ‘Abd al-‘Azîz al-Sa‘ûd incontrò Roosevelt per spostare la fedeltà dalla Gran Bretagna all’America, alla quale concesse la ricchezza della penisola araba e il diritto di sfruttarne le terre e i cieli. In cambio l’America si faceva garante della permanenza al potere dei figli di ‘Abd al-‘Aziz nella penisola araba.

I tradimenti si susseguirono. Quando il jihad afghano era prossimo alla vittoria contro i russi, l’Arabia Saudita intervenne insieme al Pakistan per formare il governo dei mujahidin, presieduto da Mujaddidi oggi agente dell’America a Kabul [m. 9 febbraio 2016, ndt].

Poi il governo saudita orchestrò l’uccisione dello shaykh Osama in Pakistan, il quale però riuscì a fuggire in Sudan. A quel punto l’Arabia Saudita fece pressioni al Sudan perché allontanasse lo shaykh Osama e i suoi fratelli. Allora Osama andò ospite da Yunis Khâlis a Jalalabad, e l’Arabia Saudita chiese a quest’ultimo di allontanarlo. Le stesse richieste – di allontanare Osama e i suoi fratelli o consegnarli all’America – l’Arabia le presentò anche all’emirato islamico finché l’ordine dell’audace Turki al-Faysal giunse a Qandahar al mullah Muhammad ‘Umar, a cui fu chiesto di consegnare Osama bin Laden – Dio ha avuto misericordia di lui – e i suoi fratelli. Il mullah allora lo allontanò rivolgendogli parole dolorose.

Quando in Sudan scoppiò la guerra civile, l’Arabia Saudita fornì armi a John Garang e lo stesso fece con i comunisti nello Yemen meridionale.

Re Fahd e successivamente ‘Abdullah si fecero promotori delle loro imprese malvage e riconobbero a Israele il diritto di occupare le terre prese prima del ’67.

Dall’Arabia Saudita partivano gli aerei crociati che colpivano l’Iraq e l’Afghanistan, e che oggi colpiscono il Levante e l’Iraq.

Quando scoppiarono le rivoluzioni dei popoli arabi, l’Arabia Saudita accolse Zayn al-Abidin bin ‘Ali, incaricò ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, vice del [presidente] destituito, di prendere il posto di quest’ultimo, e sostenne al-Sisi nel rovesciamento dei Fratelli. Oggi l’Arabia Saudita continua a esercitare questo ruolo malvagio contro il jihad e i mujahidin.

Oggi l’Arabia Saudita vuole a suscitare la sedizione (fitna) fra i mujahidin del Levante e giocare lo stesso ruolo malvagio in Afghanistan, nella speranza che le file jihadiste si disintegrino e figure come quelle di Mujaddidi, ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, al-Sisi e Beji Caid Essebsi assumano il potere nel Levante, agendo in difesa degli interessi dell’America e della sicurezza di Israele.

O voi mujahidin del Levante, le esperienze e la storia vi insegnano che l’Arabia Saudita non punterà ad altro che a distruggere il Levante, salvaguardare la sicurezza di Israele e abortire qualsiasi tentativo di costituire un potere islamico nel Levante. State in guardia dall’Arabia Saudita, dai suoi complotti e dalle sue conferenze. […]

L’Arabia Saudita non vi darà libertà, né dignità né onore perché non può darvi ciò che non ha. Oggi l’Arabia Saudita e i suoi simili sono strumenti dell’Occidente crociato per l’istituzione nel nostro mondo arabo-islamico dello Stato laico nazionale (dawla ‘almâniyya wataniyya), assoggettato alla legge internazionale. Perciò ciascun mujahid deve stare in guardia da espressioni quali “Stato civile e plurale” con le quali i laici intendono dei significati ben precisi, che portano al rifiuto della religione, al dominio delle passioni umane e alla sottomissione al piacere e al profitto, riferimento del mondo contemporaneo.

Fratelli miei che combattete nel Levante e in ogni luogo, il nobile Corano ha definito l’obbiettivo del jihad in questi termini: “Combatteteli finché non ci sarà più discordia e il culto sia interamente reso a Dio” (8,39), mentre il Profeta, la preghiera e la pace siano su di lui, disse: “Chi combatte ed esclama a gran voce la parola Allah, costui è sulla via di Dio”. Il nostro jihad e il nostro sforzo devono essere volti a costituire lo Stato musulmano in cui viga la sharia, che non riconosca i confini nazionali né le distinzioni etniche, e che creda nell’unità delle terre islamiche e nella fratellanza dei credenti.

Militanti di Jabhat al-Nusra, movimento affiliato ad al-Qaida, in Siria
Perciò coloro che emigrano nel Levante o verso qualsiasi altro fronte jihadista non possono essere definiti stranieri poiché essi sono fratelli nella fede e nella dottrina e sacrificano la loro vita per far trionfare la religione di Dio. Perciò volerli espellere dal Levante o da qualsiasi altra terra islamica contraddice evidentemente le prescrizioni dell’Islam. Il Profeta, la preghiera e la pace siano su di lui, definì il Levante “il cuore della terra dei credenti”.

Fratello mio, che combatti nel Levante e nelle altre terre islamiche, diffida, diffida e diffida dal sacrificare te stesso e il tuo denaro, diffida dall’emigrare, dall’abbandonare la tua patria e la tua famiglia, e dal trascorrere la tua vita in prigione; i laici coglieranno i frutti di questi grandi sacrifici come conseguenza delle contrattazioni dei politici e della loro rinuncia alle costanti della dottrina e della sharia. La stessa tragedia che viviamo da oltre un secolo si sta ripetendo, ed è come se non avessimo dedotto nulla da quei drammi e dalla misera fine di quella che è stata definita la primavera araba.

O voi leoni dell’Islam nel Levante, di tutte le fazioni di combattenti e di ogni terra islamica, il Levante è affidato al vostro collo, svuotatelo degli alawiti, dei laici, dei rafiditi safavidi, difendetelo dagli attacchi dei crociati e non lasciatelo ai fanatici takifiristi. Questi ultimi hanno accusato di miscredenza la direzione di al-Qaeda, affermato, mentendo, che nessuno tra coloro che professa l’unicità di Dio (muwahhidûn) ha affrontato gli houthi, lanciato ingiurie contro i soldati dell’emirato islamico definendoli agenti dell’Inter-Services Intelligence, e accusato di miscredenza buona parte dei mujahidin nel Levante.

Essi sono coloro che rifiutano l’autorità della sharia quando la maggior parte dei mujahidin del Levante la accoglie e, oltre a rifiutarla, hanno preso ad attaccare la dottrina dei mujahidin che hanno dato le loro vite per difenderne la sovranità.

Questi hanno proclamato un califfato per mezzo di una dichiarazione di fedeltà (bay‘a) di alcuni sconosciuti, avvenuta in un luogo e in un momento sconosciuti, a un uomo che non la merita e che, di fatto, ha ricevuto una dichiarazione di fedeltà per un emirato islamico. La notizia è stata diffusa da chi non godeva della credibilità necessaria per diffonderla, tanto sono numerose le menzogne e le diffamazioni di cui è artefice. […]

Talebani in Afghanistan
Essi affermano di seguire le orme dei loro pii antenati malgrado il conflitto con lo shaykh Osama bin Laden, Dio ha avuto misericordia di Lui – il quale dichiarava che la bay‘a al principe dei credenti, il mullah Muhammad Omar, è la bay‘a suprema e invitava i musulmani a dichiarargli fedeltà –, e malgrado il conflitto con lo shaykh Abu Hamza al-Muhajir, Dio ha avuto misericordia di lui, il quale riteneva che chi si chiama fuori dal patto di fedeltà dopo che il principe dei credenti, il mullah Muhammad Omar, l’ha riconosciuto, compie un crimine ben più grave della fornicazione e del consumo di vino. […]