Recensione di Hugh
Kennedy, Caliphate. The
History of an Idea, Basic
Books, New York 2016
Se
c’è un’idea politica forte, che da quattordici secoli domina la storia islamica,
è proprio quella del califfato. In suo nome si è combattuto e ucciso, come
testimoniano la vicenda dell’assassinio del terzo califfo ‘Uthmān, l’uccisione
di Husayn e le violenze commesse oggi dallo Stato Islamico; in suo nome sono
stati versati fiumi d’inchiostro – dai trattati di Māwardī (m. 1058), Juwaynī (m.
1085) e Ghazālī (m. 1111), primi teorici di questa nozione, alle dissertazioni
dei contemporanei. Ci sono stati momenti nella storia in cui questa idea di
governo ha inciso profondamente nell’organizzazione della comunità musulmana, e
momenti in cui essa è risultata quasi ininfluente. Nel Novecento, dopo la
dissoluzione del califfato ottomano (1924), con la nascita di movimenti
islamisti e jihadisti, l’idea è ritornata in primo piano.
Caliphate.
The History of an Idea di Hugh Kennedy, professore di arabo alla School
of Oriental and African Studies (SOAS) di Londra, esamina l’evoluzione storica di
questa nozione e il suo uso e abuso nei secoli. Partendo dai primi quattro
califfi “ben guidati”, Kennedy ripercorre i momenti salienti del califfato omayyade
e abbaside, dedica un capitolo ai califfi fatimidi in Tunisia ed Egitto,
esamina il sultanato ottomano e conclude con una riflessione
sull’appropriazione indebita di questa nozione da parte dello Stato islamico.
L’obbiettivo
del volume è sradicare l’idea, piuttosto diffusa, che il califfato sia un’istituzione
dai fondamenti evidenti, rimasta immutata nei secoli, mettendo in luce come
invece questa forma di governo abbia subito più volte aggiustamenti dettati dalle
circostanze storiche. Basti pensare al dibattito seguito alla morte di Muhammad
in merito a chi dovesse dirigere la umma e di quali prerogative dovesse
essere investito. Per alcuni, il califfo doveva appartenere semplicemente alla
tribù dei Quraysh (perciò poteva essere anche un omayyade), per altri doveva
essere un membro dei Banū Hāshim, il clan del Profeta, mentre altri ancora, i
kharijiti, ritenevano che tutti i musulmani maschi fossero potenziali candidati.
Vi era poi chi contemplava l’ereditarietà del califfato e chi invece ammetteva
la designazione diretta (nass) del successore. Tutte queste opzioni,
spiega Kennedy, aprivano a una serie di altre considerazioni. La successione
ereditaria poneva il problema di stabilire quale ramo della famiglia di
Muhammad potesse accedere alla carica e la questione del diritto di
primogenitura e implicava potenzialmente l’infallibilità del califfo che, in
quanto tale, poteva interpretare o addirittura modificare il Corano e la Sunna
(visione sciita). Se invece il califfo era nominato dagli uomini, non poteva
essere considerato infallibile, ed è la ragione per cui, in ambito sunnita, l’interpretazione
del Corano e della sharī‘a sarebbe diventata,
dal X secolo in avanti, una prerogativa degli ulema e dei giuristi anziché del
califfo.
Soprattutto
nei primi quattro secoli non si seguì una prassi precisa e univoca: il primo
califfo Abū Bakr non faceva parte della famiglia di Muhammad e fu eletto da un
gruppo ristretto di musulmani da cui ‘Alī era rimasto escluso; ‘Umar, suo
successore, fu nominato personalmente da Abū Bakr, mentre ‘Uthmān fu eletto da
un consiglio voluto da ‘Umar e formato da sei uomini tra cui ‘Alī. Quest’ultimo
invece divenne quarto califfo senza ricevere un’investitura formale e dovette
conquistare la carica sul campo nella celebre battaglia del Cammello. Ciò conferma
– conclude l’autore – che i tentativi odierni di ripristinare il califfato
rifacendosi alla tradizione sono arbitrari perché la storia islamica ha
prodotto califfati anche molto diversi tra loro, non riducibili a un modello
unico.
Pensato
per un lettore non specialista, il libro di Kennedy è uno strumento
imprescindibile per chi voglia conoscere l’evoluzione storica di questa
istituzione, cogliere il peso che essa ha avuto nella formazione della cultura
politica islamica e le ripercussioni nel presente. L’istituzione califfale,
infatti, non può essere compresa a prescindere dal contesto storico in cui è stato
plasmata.
[Recensione pubblicata su Oasis n. 25 (giugno 2017)]